La strage del Bataclan, la guerra in corso in Siria e Iraq hanno fatto lievitare gli interventi sull’Islam, sui rapporti possibili tra nord e sud Mediterraneo. Anche il nostro sito ha riportato proposte a riguardo. A mio personale vedere troppo spesso le discussioni, gli interventi hanno un approccio volontaristico, soggettivo.
Credo che il dialogo dovrebbe essere affrontato diversamente. Prima di cercare i modi di una cooperazione e di una comprensione reciproca dovremmo, assieme a quanti nel mondo musulmano siano disponibili, esplicitare in modo onesto le differenze che ci separano. Dovremmo confrontarci su questioni di principio da cui discendono scelte politiche per trovare assieme, si spera, i fondamenti di una politica pluralista: è superabile la contraddizione tra leggi secolari e legge divina? Lo Stato è un concetto politico o religioso? La religione è un fatto privato? Il potere deve essere mondano? La libertà di culto (apertura moschee/chiese/templi, biblioteche confessionali, proselitismo pacifico) va garantita in forme reciproche? Come si garantiscono i diritti dell’uomo e della donna, la parità, la tolleranza, la partecipazione alla vita politica? E se esistono differenze sostanziali come convivere? Come superare quanto ci divide?
Poiché nelle comunità umane fino a quando non sono condivisi valori non vi è un comune sentire: e le relazioni rimangono pericolose.
Una risposta al drammatico quesito – fino a dove si spinga il diritto della democrazia di difendersi contro chi utilizza la libertà di espressione per incitare al suo sovvertimento – può essere tratta dalla sentenza Refah Partisi e altri v. Turchia della Corte europea dei diritti dell’uomo. L’accusa mossa dal Procuratore generale turco al Refah, il partito islamista sciolto nel 1998, era di essere il centro nevralgico di attività contrarie al principio del secolarismo: attività, peraltro, costituite esclusivamente da dichiarazioni pubbliche, rilasciate dal Presidente del partito o da altri esponenti, a favore dell’instaurazione di una pluralità di sistemi giuridici basati sulle diverse credenze religiose, in particolare del regime della legge islamica (sharia) alla comunità musulmana.
La Corte di Strasburgo ritenne che il modello di società propugnato dal Refah costringeva gli individui a obbedire, non alle regole poste dallo Stato nel suo ruolo di garante dei diritti individuali e del libero esercizio delle credenze religiose in una società democratica, ma a disposizioni statiche imposte dalla religione di riferimento, sgretolando così il principio del primato del diritto; ciò avrebbe creato un sistema diffuso di discriminazioni, in base al quale ciascun individuo sarebbe stato trattato in modo differente a seconda della religione in cui si riconosceva. Tali ricadute sono contrarie al dettato della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) e, più in generale, alla garanzia del principio democratico (§ 70).
In secondo luogo l’applicazione della ‘sharia’ è radicalmente incompatibile con i valori proclamati nella Cedu, in particolare per quanto riguarda la legge penale, lo status giuridico delle donne e la sua pervasività nella vita privata dei singoli. Di conseguenza, benché le affermazioni pubbliche dei leaders del partito non parevano costituire una minaccia reale alla laicità della Repubblica turca, la Corte ritenne che dimostrassero il fine, inconfessato, di affermare un regime basato sulla ‘sharia’ (§ 72 e 73).
In terzo luogo il fatto che non ci fosse mai stata una netta condanna da parte dei leaders dei numerosi riferimenti ai benefici effetti della c.d. guerra santa (jihad), avanzati da alcuni membri del partito, per quanto mai formalizzati in documenti ufficiali, dimostrava un’ambiguità pericolosa. La tolleranza che la società deve dimostrare nei confronti di condotte aggressive termina laddove tali condotte arrivano a negare la libertà religiosa degli altri consociati (§ 77 della sentenza Refah Partisi/Parti de la prospérité e altri v. Turchia, ECHR, 13 febbraio 2003 della Gran Camera, conf. Sezione Refah Partisi et Autres c. Turquie, del 31.7.2001) .
Sono consapevole che le implicazioni del quesito avanzato nell’articolo siano assai più vaste di una valutazione esclusivamente giuridica della questione. Tuttavia, la Corte europea dei diritti dell’uomo rappresenta una sede la cui autorevolezza trascende il solo ambito del diritto: la riflessione che le sue sentenze sollecitano può essere utilmente impiegata per la ricerca di quel confine che la nostra Rivista, encomiabilmente, cerca di individuare, tenendo alta la lanterna di Diogene nel buio di questi tempi feroci.