Si capisce bene la scelta di Giorgia Meloni di infilare l’annuncio di un progetto di riforma costituzionale della forma di governo fra uno scherzo telefonico di giovani amici di Putin (non si ricorda mai abbastanza l’ambiente in cui si è formato, il KGB) e una manovra infelice per gran parte degli italiani. Si capisce bene, quindi, anche l’enfasi sulla “madre di tutte le riforme” destinata ad avviare la “Terza Repubblica”, anche se ben pochi cittadini si saranno emozionati per questo ennesimo annuncio di cambiamento palingenetico. Non è affatto chiaro, invece, dove ci porterebbe il testo di riforma, ammesso che passerà in Parlamento e nel (molto probabile) referendum costituzionale.
La novità maggiore consiste nell’introduzione dell’elezione del Presidente del Consiglio a suffragio universale. Una soluzione non solo unica nel mondo, ma soprattutto inadatta a risolvere gli specifici problemi dell’assetto istituzionale italiano.
Già nella prima fase della Repubblica erano emersi difetti di funzionamento del sistema politico che si ripercuotevano sullo stato di salute della democrazia. In particolare, la mancanza di alternanza di governo, che per decenni fece parlare di “sistema politico bloccato” per la coazione di taluni partiti a governare e di altri a stare all’opposizione, e l’endemica conflittualità interna alle coalizioni di governo in corso di legislatura, che non solo le rendeva instabili, ma soprattutto impediva agli elettori di giudicare l’operato degli eletti al momento dell’apertura delle urne. L’instabilità rendeva dunque irresponsabili gli eletti di fronte agli elettori, con la conseguenza di mortificare il significato della scelta democratica.
La seconda fase della Repubblica assicurò bensì una compiuta alternanza di governo fra una legislatura e l’altra (1994-2013), ma confermò la conflittualità interna alle maggioranze parlamentari, peraltro proseguita fino ad oggi al punto da costituire un’invariante nei diversi assetti politico-istituzionali della Repubblica dal 1953 in poi. La speranza di passare dal bipolarismo al bipartitismo, che ha animato tutta la seconda fase della Repubblica a destra come a sinistra, si è scontrata di fronte alla realtà di un pluripartitismo molto resistente, che può ammettere una regolamentazione delle coalizioni ma non una scomparsa dei partiti minori delle coalizioni decretata per legge (elettorale o costituzionale che sia).
Cosa vuol dire a questo proposito, prevedere l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, che è anche, di solito, il segretario del partito di maggioranza relativa? Evidentemente, equivale a mettere costui o costei su un piedistallo di legittimazione ben più forte: la legittimazione diretta degli elettori, che nessun altro organo presiederebbe in forma monocratica. Eppure neanche questa legittimazione sarebbe in grado di risolvere i conflitti interni alla coalizione fino a quando la forma di governo resterà parlamentare, ossia fino a quando il governo dovrà ottenere la fiducia del parlamento per restare in carica.
Non a caso, su spinta dei partiti minori dell’attuale coalizione, il progetto prevede che una crisi di governo non comporta lo scioglimento automatico delle Camere, ma la possibilità per il Presidente della Repubblica di nominare Presidente del Consiglio un parlamentare eletto nelle file della maggioranza. Costui o costei diventa così più forte del Premier eletto direttamente, perché nel primo caso l’alternativa al suo restare in carica sarebbe lo scioglimento. Un bel pasticcio, non c’è che dire. Ma ammettiamo pure che in Parlamento si scelga di cambiare questo punto del testo, e di prevedere che la sfiducia al premier eletto comporti automaticamente lo scioglimento. In tal caso la durata del governo sarebbe garantita. Ma se i partiti minori della coalizione fossero dotati di consistente forza parlamentare, ben potrebbero far pagare molto salata la loro sottoposizione al vincolo di tenuta del governo, ad esempio in sede di conversione dei decreti legge.
Il fatto è che gli estensori del progetto non hanno avuto ben chiara la differenza che corre fra una legge e una Costituzione. Scambiando la seconda per la prima, hanno avuto in mente la fotografia dei rapporti di forza dell’attuale legislatura. Invece le Costituzioni, belle o meno non ha nessuna importanza, stanno lì per durare nel tempo al di là delle singole stagioni politiche. Confondere una Costituzione con una legge significa provocare quello “sgorbio” alla Carta del 1948 che trenta anni fa aveva auspicato Gianfranco Miglio. Eppure, per quanto abbiamo detto, non sarebbe l’estetica costituzionale ma il buonsenso politico a consigliare di lasciar perdere.
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