Quando si cominciò a parlare del passaggio al digitale, sembrava che tutti i prodotti di carta stampata sarebbero stati sostituiti da un giorno all’altro dal web. Le cose non sono andate così, neanche nel campo specifico delle riviste di cultura. Alcune sono “native digitali”, ma altre sono rimaste in formato cartaceo e altre ancora hanno scelto di aggiungere il formato digitale.
Non sappiamo quanto a lungo durerà questa situazione, molto articolata, ma anche sempre molto condizionata dai costi elevati della carta. In ogni caso, l’avvento del web ha profondamente trasformato le modalità di comunicazione per tutte le riviste, anche per quelle che hanno deciso di restare solo su carta, perché nell’intero universo della comunicazione umana domina una dimensione temporale diversa, quella dell’istante. Questo non vuol dire che non vi sarà più spazio per quelli che si chiamano “pensieri lunghi”. Sarà casomai qui che si misurerà il destino delle riviste di cultura, tipicamente caratterizzate da una riflessività maggiore di quella della tradizionale pubblicistica periodica.
Potenzialmente lo spazio sarebbe enorme, non importa se in rete o no. La comunicazione si svolge come sappiamo sempre più sui social, in forme apparentemente libere, e nella realtà invece condizionate dai titolari delle grandi piattaforme. Dove, come ha detto giustamente qualcuno, la comunicazione è gratis solo perché tu non sei l’acquirente ma il prodotto da vendere, coi tuoi dati che fanno tanta gola a tanti, nei mercati di beni come nei mercati della politica. Si tratta comunque di informazioni e di comunicazioni molto povere, oltre che dominate dall’istante.
A considerazioni ancora più tristi si presta lo stato presente dei media tradizionali in Italia. A parte il fatto che le vendite dei quotidiani sono in caduta libera (a fronte di un pubblico delle riviste da sempre molto più limitato ma più resistente), è soprattutto la qualità dell’informazione televisiva ad essere scesa negli ultimi decenni. Le trasmissioni di informazione anche politica praticamente non esistono, come non esiste più il dibattito politico. Sono i giornalisti a cantare da soli fra loro una messa infinita nei talk-show. Il politico, quando c’è, è una specie di sorvegliato speciale circondato dai giornalisti, i soliti in ogni trasmissione, che inevitabilmente recitano un copione. Dov’è in queste condizioni il pluralismo? La televisione italiana non sarà quella russa. Ma è dominata da cartelli che producono un’informazione sempre più sbiadita, oscurata dal protagonismo e dal narcisismo dei più.
Sul versante in un certo senso opposto possiamo collocare l’informazione e la formazione strettamente scientifica prodotta dalle Università e da centri di ricerca. Qui la qualità può essere anche notevole. Ma quasi sempre il linguaggio è troppo specialistico per potersi rivolgere al grande pubblico (così diventando uno dei fattori di alimentazione del populismo).
Fra le comunicazioni social e gli intrattenimenti televisivi che non fanno vera informazione da una parte, e i prodotti troppo elitari delle Università e dei centri di ricerca, c’è ormai il deserto. O meglio, c’è uno spazio che potrebbe ancora essere occupato dalle riviste di cultura, che certamente potrebbero produrre informazione di qualità, ma a determinate condizioni.
Qui diventa cruciale il ruolo delle riviste di cultura politica. Di quelle riviste cioè che, nell’esprimere una tradizione politica dai tratti più o meno marcati, l’hanno confrontata con le altre, e contestualmente si sono aperte a forme e ad espressioni diverse di cultura diffuse nella società. Eppure le interazioni fra le riviste di cultura politica non sono state maggiori di quelle, assai scarse, che hanno caratterizzato le riviste culturali in generale. Si poteva pensare che ciò fosse dovuto ai conflitti ideologici della prima fase della Repubblica. Ma dopo il crollo o la radicale trasformazione dei partiti che avevano originariamente generato quelle riviste, gli steccati sono stati mantenuti ben alti, come se potessero avere la stessa spiegazione. Vanno abbattuti prima che sia troppo tardi.
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