Marco Minniti propone di affrontare il tema delle migrazioni con un approccio che si lasci alle spalle la pessima contrapposizione fra politiche securitarie e di apertura indiscriminata che domina da tempo il nostro dibattito pubblico, e minaccia di dominarlo almeno fino alle elezioni europee del prossimo anno.

La proposta consiste nell’“affrontare alla radice le ragioni dei movimenti delle persone, piuttosto che cercare un difficile accordo sulle ricollocazioni”. L’Unione europea, dice Minniti, non è riuscita a superare il trattato di Dublino, e rimarrà comunque “divisa e ripiegata su sé stessa” se continuerà a separare la dimensione interna da quella del rapporto con l’Africa. Serve un patto fra Europa, Africa e ONU quale cornice legale in cui costruire accordi coi singoli paesi di partenza o di transito, che tenga conto dell’impegno del governo italiano ad avere 450 mila ingressi legali nei prossimi anni e che, su questa base, consenta di superare la legge Bossi-Fini (M. Minniti, Migranti: smascherare i populisti, Il Foglio, 2 ottobre 2023).

In effetti, l’alternativa ce la offrono gli accordi bilaterali di oggi, che da una parte stentano a decollare anche quando si riescono a stipulare (vedi quello Italia-Tunisia) e dall’altra alimentano divisioni fra i maggiori Stati europei che paralizzano la nostra capacità di reagire politicamente ai fenomeni migratori. Al contrario, col patto l’Italia giocherebbe un ruolo di punta “per storia, cultura e collocazione geografica” in una fase in cui l’intero assetto del Mediterraneo viene interessato dalla perdita di peso politico dell’Europa, soppiantata dall’attivismo di Russia e Cina.

La proposta meriterebbe di essere approfondita e studiata nel merito e nelle sue implicazioni, anziché, come temo avverrà, riportata a forza agli scontri che passa il convento mediatico o ignorata. Essa non è affatto un punto di compromesso fra le opposte linee che si contendono il campo, ma una linea diversa, perché l’unica a venire imperniata su una strategia integrata nei confronti del continente africano, e a venire lanciata dopo che è stato dimostrato il fallimento delle politiche securitarie del governo, e nello stesso tempo l’avvio in Africa di una fase nuova, piena di incognite per noi e per tutta l’Europa. Non a caso, per Minniti, se “I muri sono fatti per essere abbattuti”, e i movimenti di persone non possono essere fermati, è per ragioni storiche, così come egli mantiene ferma la fiducia nella possibilità, oltre che nella necessità, di governare politicamente questi processi, sulla base dei due princìpi di legalità e di umanità: “Una democrazia non può contrapporre legalità ed umanità. Rischia di perdersi. Compito di una democrazia è conciliare questi due principi. Questo la rende strutturalmente inconciliabile con le autocrazie e le dittature”.

Lo spirito della proposta è lo stesso di quello che animò anni fa la politica dell’allora Ministro dell’Interno: quella di “affrontare alla radice le ragioni dei movimenti delle persone”. Una politica certo costretta a muoversi dentro contesti difficilissimi, a partire da quello libico, ma che non poté andare avanti anche perché priva del necessario consenso in Italia, e in particolare duramente osteggiata da un pezzo di sinistra non disposto a perdere un preteso monopolio della moralità, anche a costo di alimentare la disinformazione.

Il rifiuto di quella posizione pesa da allora come un macigno su quanti lo sostennero, anche perché nessuna seria proposta alternativa è venuta da quella parte né allora né poi. È urgente, piuttosto, confrontarsi con tutti coloro che in una fase come l’attuale, così pericolosa per il nostro futuro di italiani e di europei, sappia misurarsi col formidabile problema di impostare in forma integrata le politiche migratorie con quelle della sicurezza in Africa e nel Mediterraneo.