Raffaele Tedesco

 

Alla vigilia dei XVI giochi olimpici, che si celebrarono a Melbourne dal 22 novembre all’8 dicembre del 1956, il presidente del Cio Avery Brundage affermò:” Ogni persona civile si ritira inorridita davanti al selvaggio massacro d’Ungheria; ma non è motivo di distruggere l’ideale della cooperazione internazionale e della buona volontà proprio del movimento olimpico [….] In questo mondo imperfetto, se la partecipazione allo sport dovesse arrestarsi ogni volta che i politici violano le leggi dell’umanità, ci sarebbero ben poche competizioni internazionali”[1] .

Il 1956 fu davvero un anno denso di avvenimenti, spesso drammatici per l’Europa e per il mondo intero. Basti solo ricordare qui il XX congresso del Pcus e la denuncia dei crimini di Stalin da parte di Nikita Kruscev; il disastro nella miniera di carbone di Marcinelle, in cui perirono ben 256 persone, tra cui 136 italiani; la seconda guerra arabo-israeliana; la sentenza della Corte Suprema americana che stabilì l’incostituzionalità della segregazione razziale sui mezzi di trasporto pubblici; la rivolta degli operai a Poznan, in Polonia, repressa nel sangue dal generale sovietico Konstantin Rokossovsky; la nazionalizzazione del Canale di Suez operata dell’Egitto di Nasser, e la conseguente occupazione di quel territorio da parte di Gran Bretagna, Francia e Israele: e, appunto, la rivoluzione d’Ungheria, schiacciata dai carri armati dell’Unione sovietica.

L’inaudita violenza dei fatti di Budapest turbò molte coscienze, anche nel campo della sinistra: la quale, come nel caso italiano, registrò la rottura definitiva del Fronte popolare (per la verità ormai logoro da tempo) tra i comunisti, schierati a favore dell’invasione sovietica, ed i socialisti, solidali invece con gli insorti per la libertà. Ed inevitabilmente questi fatti sanguinosi ebbero un riverbero anche sulle Olimpiadi, che da lì a poco si sarebbero svolte a Melbourne dal 22 di novembre. Olanda, Svizzera e Spagna (quest’ultima non proprio un esempio di democrazia in quel torno di tempo), per manifestare la loro indignazione, ritirarono le loro delegazioni[2].

Lo sport difficilmente riesce a star fuori dalle cose del mondo. Nel bene e nel male. Politica compresa. Il barone De Courcel, al Congresso internazionale di Parigi del 1894,  affermava che “tutta la storia dello sviluppo sportivo e dell’esercizio fisico” era lì a dimostrarne “la funzione civilizzatrice, pacificatrice educativa dei costumi e dei caratteri”; e concludeva: “Avviciniamo le nazioni diverse con le amichevoli lotte dello sport e possa l’osservanza leale delle regole che presiedono ai nostri giochi aprire le loro anime a quel sentimento di reciproco rispetto, che è il fondamento primo del mantenimento della pace fra i popoli”[3]. Ma sarà la stessa storia che ci darà, da lì in poi, segnali non sempre univoci in tal senso.

Nell’anno olimpico anche in Ungheria fervono i preparativi per la partecipazione ai Giochi. L’obiettivo è cercare di bissare lo straordinario successo della precedente edizione di Helsinki del 1952, dove i magiari riuscirono a mettersi al collo ben 42 medaglie, tra cui 16 ori: battuti solo da Usa e Urss. Dopo il calcio, lo sport più popolare in Ungheria è la pallanuoto. Ma se il football ha perso nel tempo lo smalto dell’era della mitica Honved del fenomeno Puskas, la pallanuoto è rimasta una “miniera d’oro” per lo sport magiaro. Quando scoppia la rivoluzione, la squadra di pallanuoto si sta preparando anch’essa in vista di Melbourne; consapevole com’è di essere ancora la regina incontrastata di questo sport. E lo sta facendo in una località dalla quale si avvertivano gli echi della rivolta e il fumo delle bombe provenienti dalla capitale[4].

Un tabellone beffardo mise di fronte proprio Ungheria e Unione sovietica: un incontro che la storia ricorderà come la partita del Blood in the water

Davanti allo sconcerto degli atleti, a cui non fu data alcuna spiegazione in merito, la squadra fu portata in Cecoslovacchia, per continuare la preparazione. La situazione fu compresa in tutta la sua drammaticità solo quando la spedizione arrivò in Australia, dove l’unico componente del team che conosceva l’inglese riuscì a reperire un giornale locale in aeroporto[5]. Rabbia e sconcerto si fecero strada tra gli atleti. E qualcuno, come la giovane stella del team Ervin Zador, promise a se stesso che non sarebbe più tornato in Ungheria. Mentre il capo della delegazione sovietica dichiarava che era giunto in Australia solo “per fare dello sport”[6], tutto l’ambiente intorno si faceva incandescente: anche perché a Melbourne c’era una numerosa comunità di emigrati ungheresi, cosa che non si rivelerà di poco conto.

Alcuni componenti della squadra di pallanuoto magiara, in segno di protesta, ammainarono la bandiera ufficiale del loro paese – simbolo dell’asservimento all’Unione sovietica – issandone una con gli stessi colori, ma con impressa la croce di Lorena e lo scudo di Kossuth, l’eroe della rivoluzione ungherese del 1848[7]. In un’altra situazione un gesto del genere avrebbe significato l’esclusione dalla squadra e possibili altre ritorsioni. Ma, considerando l’incertezza del momento e il risalto dato dai media ai fatti sanguinosi di Budapest, l’episodio non ebbe alcuna conseguenza.

L’inizio del torneo non fece altro che confermare i pronostici della vigilia. L’Ungheria vinse le prime tre partite del girone preliminare, introducendo per la prima volta una piccola, grande “rivoluzione”: la difesa a zona, con continui raddoppi sul portatore di palla[8]. In sostanza, quello che fece nel calcio Arrigo Sacchi col suo Milan quasi quarant’anni dopo. Sembrava che il destino sportivo fosse segnato, per quella squadra di extraterrestri lanciata verso una facile vittoria nel torneo. Però delle volte il diavolo ci mette lo zampino, incurante della storia, delle tragedie e delle emozioni. Un tabellone beffardo mise di fronte, in semifinale, proprio Ungheria e Unione sovietica: un incontro che assumerà tutti i tratti drammatici tipici dell’odio e del risentimento, tanto che la storia lo ricorderà come la partita del Blood in the water.

Essa si svolse in un ambiente infuocato. Le tribune erano gremite di gente. E la stragrande maggioranza era di origine magiara. Come ebbero a testimoniare anni dopo alcuni giocatori ungheresi, essi non avevano nulla di personale contro i loro colleghi sovietici. Ma questi rappresentavano i carri armati  a Budapest, che, come affermò Dezso Gyarmati, “ammazzavano i miei amici che combattevano per la libertà”[9]. I giocatori sovietici, dal canto loro, avevano immensa stima e rispetto sportivo per i maestri ungheresi, da cui avevano imparato tutto. Anzi, i magiari erano stati praticamente costretti ai tenere “a bottega” i sovietici, per insegnargli i segreti del gioco. Questione di “egemonia politica”, si potrebbe dire[10].

Ancora una volta, la teoria dello sport come “funzione civilizzatrice”, espressa anni addietro dal barone De Courcel, non trovò applicazione, venendo smentita da una partita che assunse subito i tratti della violenza e della rivalsa. L’agonismo cedette il posto alla scorrettezza, l’incontro al solo scontro, e una piscina prese le sembianze di un campo di battaglia. Gli ungheresi cominciarono a provocare in tutti i modi i russi. Insulti e colpi bassi non si contavano. E per di più, essendo costretti a studiare il russo a scuola, non facevano alcuna fatica a farsi capire.

La folla sugli spalti era tutta a favore della squadra magiara, e nel rileggere le cronache di quel giorno sembra di scorrere le pagine di Massa e Potere di Elias Canetti: dove si parla dell’impulso di distruzione della massa, in cui tutti si uniscono al “grido”[11]; dove il fischio d’inizio della partita diventa uno “scoppio”[12], e si sente l’urlo liberatorio, figlio del “senso di persecuzione” (“una particolare e irosa suscettibilità, eccitabilità, nei confronti dei nemici designati come tali una volta per tutte. Essi possono fare tutto ciò che vogliono […] le loro azioni sono sempre intese come se scaturissero da una imperturbabile malvagità”)[13]. Impressionante il numero di giocatori costretti a recarsi nel “pozzetto” delle espulsioni temporanee: la prima dopo appena un minuto di gara (e ne fu vittima il capitano dei sovietici Mshveniyeradze).

Le gesta sportive passarono decisamente in second’ordine. L’arbitro fece fatica a mantenere la partita sul piano del gioco. Mentre dagli spalti, gremiti di oltre cinquemila persone, si urlava a squarciagola Haja Magyarok (“Forza Ungheria”). Più e più volte i giocatori si scambiarono colpi proibiti, in uno sport che già di per sé è caratterizzato da un contatto fisico spesso rude. Al termine della partita, gli espulsi definitivi saranno ben cinque. Verso la fine del match l’ungherese Ervin Zador provoca il russo Valentin Prokopov, il quale, per tutta risposta, gli si scaglia addosso colpendolo con un pugno sull’arcata dell’occhio destro. Zador ne rimane completamente stordito, e comincia a perdere sangue copiosamente: e mentre si appresta ad uscire dal campo, un compagno lo invita a farlo dalla parte della tribuna, affinché tutti vedessero quello che era successo.

Ancora oggi vediamo nuovamente gli sportivi di colore americani inginocchiarsi al momento dell’inno nazionale, in segno di protesta contro il presidente Trump

Mentre il giocatore magiaro nuotava verso il bordo vasca, il suo sangue colorava di rosso l’acqua. Il suo volto tumefatto sobillò il pubblico, che iniziò a riversarsi nella zona di gioco alla caccia dei giocatori sovietici: dovette intervenire la polizia, per evitarne il linciaggio. Ufficialmente, l’arbitro non fischiò mai la fine di quella partita. Non ne ebbe il tempo. Per la cronaca, finì 4-0 a favore della squadra ungherese: la quale, in finale, riconquistò la medaglia d’oro, battendo la Jugoslavia del non allineato Tito per 2-1.

Ma il dato sportivo assume un rilievo secondario: perché lo sport, ancora una volta, aveva assunto delle finalità ultronee rispetto alla sua missione. La storia gli ha dato sempre tanti e diversi vestiti: spesso maschere, oserei dire. Per Karl Kautsky lo sport era fondamentale per la rigenerazione fisica e morale della classe operaia[14]. Martin A. Bertam evidenziò come la struttura del gioco sportivo potesse essere applicata anche ad altre attività umane, come ad un ordinamento o sistema giuridico[15]. Inoltre l’athleticism fu una delle  caratteristiche ideologiche dell’Inghilterra vittoriana, che ebbe grande influenza sui comportamenti collettivi e sulla costruzione della coscienza comune britannica[16]. Il pedagogista e patriota tedesco Federico Ludovico Jahn ne comprese l’importanza come mezzo per forgiare il sentimento di comunità nazionale, perché lo sport poteva essere portatore di valori come la disciplina, il rispetto dell’autorità e della sottomissione. Lo sport come un veicolo ideologico, insomma[17], utilizzato spesso nella storia anche come sostegno alle peggiori dittature.

Abbiamo visto sportivi mandare messaggi importanti dalle arene dove si esibivano. Indimenticabile, durante le Olimpiadi del 1968 in Messico, è il pugno alzato sul podio dai due atleti statunitensi di origine afroamericana, Tommie Smith e John Carlos, per protestare contro le discriminazioni razziali nel loro paese. Ed ancora oggi vediamo nuovamente gli sportivi di colore americani inginocchiarsi al momento dell’inno nazionale, in segno di protesta contro il presidente Trump ed il sistema ancora discriminatorio nei confronti della minoranza nera che si protrae in America. Ma, qualsiasi valore simbolico vogliamo dare allo sport, nella “partita nel sangue nell’acqua” non ne troviamo alcuno. Lì, purtroppo, c’era solo l’odio che montava nei confronti di coloro che simbolizzavano il sopruso, la barbarie, la dittatura.

In quella partita, persero tutti. Anche perché con i fatti di Ungheria è ancora una volta l’umanità ad essere scesa negli inferi. La vendetta ha un potere risarcitorio effimero, sembrando più il risultato dell’impotenza che della lotta per la giustizia. L’incontro si giocò il 6 dicembre del 1956. La rivoluzione ungherese, ufficialmente, era finita tragicamente l’11 novembre. Ervin Zador, l’uomo il cui viso sfregiato rimane una delle immagini più forti della storia dello sport, mantenne la sua promessa. Non tornò mai più in patria, rinunciando così ad una sicura e folgorante carriera sportiva. Si trasferì negli Stati Uniti, dove provò ancora a giocare a pallanuoto. Ma il livello era troppo basso, e perse interesse. In seguito diventò allenatore di nuoto, e si trovò a preparare in vasca un giovane promettente: un certo Mark Spiz che di lì a poco vincerà nove medaglie olimpiche, stabilendo il record del mondo in tutte le specialità a cui prese parte. Ma questa è un’altra storia.