Siamo lieti di inaugurare la nostra rubrica di recensioni collettive con un libro ormai diventato must-have per chi vuole stare al passo con il dibattito sui social e sul neoliberismo (e chi non lo vuole?). Se bazzicate le librerie, o anche soltanto le vetrine delle librerie, vi sarete accorti della proliferazione di una serie di libretti sui toni dell’azzurro dai titoli molto accattivanti: Psicopolitica è uno di questi, precisamente quello color carta da zucchero.
Nottetempo evidentemente ha deciso di pubblicare in massa gli scritti del filosofo coreano Byun-Chul Han, autore molto produttivo che attualmente insegna filosofia all’università di Berlino.
Il libro in sé si presenta e si propone come un pamphlet eventualmente da integrare con le altre pubblicazioni dell’autore. Nel caso specifico, riprendendo il filone foucaultiano della biopolitica, l’autore si sofferma sui nuovi metodi di controllo e di auto-controllo emersi con le nuove tecnologie applicate a quello che viene chiamato “capitalismo della sorveglianza”.
Oltre alla brevità ha anche il pregio di essere piuttosto chiaro nelle spiegazioni; certamente è molto ripetitivo fino a sfiorare la pedanteria ma il frequente uso di metafore riesce a far capire anche al lettore più digiuno dell’argomento di cosa stia parlando. Se vogliamo cercare la nota stonata è che per noi di Rebis certi paragoni (come l’associazione del “like” allo “amen” in ambito religioso o simili) ed estremizzazioni retoriche sulle nuove tecnologie e i processi ad esse legate hanno quell’odore di naftalina di armadi chiusi dal 2013, quando andavano molto di moda online questo tipo di critiche sociali tanto facili quanto superficiali e imprecise.
Nonostante questa “disaffinità” stilistica, sono importanti e da segnalare alcune tematiche che vengono affrontate, non per la prima volta ad onor del vero, ma che sono urgenti nella nostra contemporaneità. In primis il rapporto che si ha con noi stessi, con il nostro io, la positività imposta dagli imperativi produttivisti della competizione economica, l’auto-repressione e l’auto-disciplinamento per l’efficientamento aziendalista delle nostre vite quotidiane, che portano al burnout e /o allo shutdown, ovvero un senso di frustrazione e alienazione che determina un significativo deterioramento emotivo che può culminare in gravi stati di apatia o addirittura in un rifiuto totale del lavoro e della società.
Se la depressione e i disturbi d’ansia sono le malattie del secolo, la soluzione per sopravvivere e soprattutto per nasconderle è presto detta, soprattutto nelle società anglosassoni: palliativi su palliativi per soffocare la sofferenza, una prevalenza non solo della psichiatria e degli ansiolitici ma anche della psicologia cognitivo-comportamentale, a discapito di una psicoterapia che oggi ci sembra obsoleta ma che ci faceva fare i conti con la totalità di noi stessi.
Altro punto centrale e centrato della riflessione è il tema dell’auto-sorveglianza, a nostro parere spiegato in modo chiaro. Senza bisogno di ipnosi, di costrizioni e di sistemi totalitari – non nel senso classicamente distopico – siamo noi stessi i primi a donarci al Grande Fratello. A venderci, a vendere i nostri dati, le nostre posizioni, i nostri interessi: è con un brivido che pensiamo alla nostra attività sui social e su come essa sia tanto spontanea e volontaria quanto assuefacente e impossibile da evitare. È forse l’ultimo stadio, anzi l’ultimo pannello di “ascended brain”, della sindrome di Stoccolma?
Per creare questa condizione il capitalismo ha fatto ciò che sa fare meglio: assorbire il dissenso. In questo caso, una delle pratiche più rivoluzionarie e da sempre affini ai movimenti controculturali, la componente ludica nella sua immediatezza. Come afferma l’autore, nella società odierna prevale la celebrazione dell’emozione come stato d’animo breve, transitorio, confuso, contrariamente allo sviluppo di un sentimento che è condizione “generale” con uno “stato in luogo” più solido e frutto di una riflessione stabile. Non più dunque un “ascetico capitalismo dell’accumulazione” come quello analizzato da Max Weber, dove la logica razionale prevale su quella emotiva, ma un capitalismo che punta alla vendita e alla consumazione dell’emotività, attraverso la quale persino le merci vengono tramutate in “esperienze”. Gli stessi media e la vita politica in generale sono propensi a capitalizzare fortemente sulla passione immediata, in quanto comunicativamente più rapida e più facilmente spendibile ideologicamente. Anche in ambito lavorativo le richieste controculturali di un’attività “giocosa” sono degenerate in una ludicizzazione del lavoro (la cosiddetta “gamification” e simili) il cui unico scopo è far compenetrare ancora di più il tempo della produzione e quello dello svago, annullando ogni confine tra i due e facendo leva sul meccanismo psicologico di ricompensa e gratificazione (lo stesso “responsabile” della sempre più frequente “dipendenza da social”).
Dove un tempo quello che veniva percepito come “tempo libero” non era altro che un periodo atto a recuperare le forze per la produttività, oggi persino questa illusione è venuta meno. Già dalle riflessioni situazioniste negli anni 60 si evince come il tempo libero sia imposto e propedeutico alla preparazione della successiva giornata lavorativa. Oggi anche il tempo libero ha difficoltà a legarsi a quell’immaginario da commedia italiana, “lascio tutto e vado al mare con tre figli un cane e la moglie e torno più stressato di prima” , ma è invece impossibile staccarsi fino in fondo dal lavoro: basta un messaggio, basta una chiamata, basta un social, basta insomma avere uno smartphone per garantire la completa reperibilità.
D’altra parte è anche vero che nel corso degli anni si potrebbe definire quasi patologico lo sforzo della sinistra di sacralizzare e mitizzare il lavoro come opera di liberazione umana e attività che definisce l’individuo, invece che ricercare l’emancipazione e l’eventuale liberazione da esso. Specialmente oggi osservare determinate frange politiche “di sinistra” predicare un “ritorno al lavoro vero” odora molto di un contesto fordista di fabbrica antiquato (con la sua classe lavoratrice nazionale di maschi bianchi welfarizzati nel sistema socialdemocratico) e già da tempo disgregatosi nella sua inadeguatezza sotto i moti del ‘68 o, alla peggio, di zappe in ogni paese e collettivizzazioni forzate.
Questi punti sono, a nostro parere, le riflessioni più interessanti che si possono facilmente – ed è un pregio – ricavare da questo libro. Il ritmo pedante e ripetitivo certo non aiuta e anche se la divulgazione è buona ci sono alcuni problemi che a nostro parere Han non ha saputo cogliere.
Certamente balza all’occhio che la situazione di cui tratta, seppur sembri universale, di certo non è mondiale ma rispecchia in particolar modo i Paesi più sviluppati e “occidentali”, ovvero il continente europeo e la regione nordamericana – Giappone e Corea del Sud, immaginiamo, necessiterebbero di una riflessione a parte.
Si sente anche, all’interno della critica sviluppata, l’odore di un velato primitivismo antitecnologico insieme ad un’assolutizzazione della dimensione digitale e dei social, come se il lavoro oggi fosse sempre e solo creativo e immateriale, mentre c’è ancora bisogno di personale che gestisca le tecnologie, anche ad un livello semplice come i call center – decisamente un impiego non “creativo” – o che esegua materialmente il comando della tecnologia, come i rider. Il problema dei corpi, seppur precari e flessibili, esiste ancora, mentre Han sembra concentrarsi troppo sul lavoro psichico e cognitivo, quindi, di nuovo, implicando solo una fetta di mondo, a maggioranza benestante e occidentale. Il problema “corporeo” del lavoro persiste ancora e forse in maniera peggiore poiché ci appare estremamente contradditorio con le potenzialità emancipanti offerte dallo sviluppo tecnologico.
Si percepisce in tutto il pamphlet una sorta di superficialità, rilevabile anche dalla critica che muove a Toni Negri. In particolare, affermare che non esiste più una “moltitudine” proletaria sfruttata da chi detiene i mezzi di produzione è peccare di zelo. L’autore non tiene infatti in conto che essendo la produzione immateriale presente solo in minima percentuale all’interno del sistema economico mondiale, il resto della popolazione (non di rado anche all’interno degli stessi Paesi occidentali, dove precarizzazione e lavoro materiale sono tutt’altro che scomparsi) si ritrova ancora in una condizione di dipendenza nel senso più stretto del termine. Han tende a confondere la diffusa percezione di una realtà sociale priva di classi con l’effettiva realtà delle cose. “Il proletario” non può essere semplicemente ridotto al suo significato letterale, come “colui che possiede solo la propria prole”, ma va inteso come l’individuo che nel proprio contesto socioeconomico e dei rapporti di produzione è costretto a vendere il proprio lavoro (sia esso materiale, emotivo o cognitivo) per la sopravvivenza, e non possiede i mezzi concreti per il proprio sostentamento. Credere che intere popolazioni suburbane, magari persino appartenenti a etnie più vulnerabili, non si trovino in una posizione di antagonismo con le classi che beneficiano dello stesso sistema ideologico che genera l’illusione della “autoproduzione illimitata” (ammesso che certe classi sociali pesantemente svantaggiate ne siano catturate allo stesso modo e con la stessa intensità della popolazione media occidentale) è una generalizzazione intollerabile. Come già evidenziato, nuove forme di controllo e di lavoro non hanno per niente scardinato una realtà composta da sfruttatori e sfruttati, così come nuove forme repressive non hanno eliminato la repressione in sé. É sicuramente vero che gli apparati ideologici oggi tendono a individualizzare le responsabilità del fallimento e della patologia mentale, rendendo estremamente più difficile lo sviluppo di una coscienza sociale e collettiva, ma ciò non significa che non sia possibile e strategicamente preferibile in vista di una mobilitazione coesa ed efficace.
Il capitolo finale conferma le opinioni che ci siamo fatti, con il suo elogio all’idiota (o addirittura all’autistico) come moderno eretico, in cui l’analisi è confusa e non troppo convincente lasciando una sensazione di incompletezza. Ci pare infatti che Han, barricatosi eccessivamente in una dimensione accademica, produca analisi (specialmente nel capitolo conclusivo) in cui realtà sociali nella loro concretezza e profonda “materialità” vengano confuse con retoriche in “filosofese” ben poco convincenti. Han purtroppo nella solita vaghezza che contraddistingue queste pubblicazioni, ci lascia un retrogusto luddista che probabilmente spiega l’utilizzo di metafore e associazioni alle volte decisamente stantie.
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