“Riconoscere gli stimoli relativi alle persone, come volti e posture del corpo, è più difficile quando questi si presentano capovolti” (si tratta del fenomeno noto come inversion effect); “per gli oggetti, quando capovolti, non è presente invece la stessa difficoltà di riconoscimento”. E in una ricerca sperimentale di pochi anni fa è emerso che “i partecipanti riconoscevano più facilmente le foto delle donne capovolte rispetto alle foto degli uomini capovolti. In questo studio è emerso quindi come l’inversion effect non si attiva per le donne sessualizzate, esattamente come avviene per gli oggetti”. È forse il passaggio del libro di Maria Giuseppina Pacilli Quando le persone diventano cose. Corpo e genere come uniche dimensioni di umanità che più mi ha toccato: la donna-oggetto non solo come metafora o espressione a effetto, bensì come realtà dimostrabile e quantificabile. Il saggio, del resto, si caratterizza per una documentatissima vis polemica nei confronti dell’oggettivazione sessuale e dell’auto-oggettivazione sessuale delle donne. Il sottotitolo mi convince, senza ombre: il genere e il corpo non possono, non devono rappresentare le nostre uniche dimensioni. Poi, però, l’autrice tende, come dire?, a negare una valenza pubblica, sociale proprio al corpo e al genere. Come se essi dovessero venir relegati nella sfera dei singoli e delle coppie, nella loro intimità. I fatti suggeriscono con forza che così non è.
E del resto una tesi del genere – una sorta di desessualizzazione della vita sociale – rischierebbe, per paradosso, di colludere con il “neutro-maschile-indifferenziato” descritto dalle studiose della differenza sessuale e di genere, alle quali spesso mi ispiro. Rischierebbe, dunque, di accogliere come unico modello di sessualità quello oggettivante (o auto-oggettivante), escludendo altre dimensioni della sessualità stessa (l’eros coniugato con la tenerezza, il desiderio legato inscindibilmente alla libertà).
Il corpo, i corpi, poi, possono anche essere scagliati contro l’ingiustizia; “usati” nelle provocazioni volte ad affermare dignità e libertà (lo dimostra la vicenda radicale, lo dimostrano le ragazze iraniane, accanto ad altre, sparse qua e là per il globo).
Alto è l’interesse nei confronti della performance sanremese di Elodie. Auto-oggettivazione o provocazione? Utilizzo, magari intelligente, o cinico, di un repertorio arcaico o sfida, creatività, arte? Riproposizione postmoderna dello stereotipo o assalto nel cuore dello stereotipo stesso? Ecco, a me pare che quella della cantante sia una sorta di acrobazia: il tentativo di demolire dall’interno una vecchia consuetudine, di padroneggiare ciò che non di rado ci padroneggia. Come dire: scherziamo con il fuoco. Una strada stretta, senza dubbio, molto stretta. Le altre vie, tuttavia, finora non hanno portato lontano.
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