Nel 1943 George Orwell scriveva: “Tutti gli sforzi per descrivere una felicità duratura sono stati, d’altronde, dei fallimenti. Le Utopie […] per così dire ‘positive’ sono invariabilmente poco appetibili, e di solito mancano anche di vitalità […]. Esse sono tutte allo stesso modo incapaci di suggerire la felicità […]. L’incapacità dell’umanità di immaginare la felicità […] presenta ai socialisti un problema serio […]. Il pensiero socialista ha a che fare con la predizione, ma solo in termini ampi. Spesso si deve mirare a obiettivi che si possono intravedere solo indistintamente […]. Chiunque tenti di immaginare la perfezione rivela semplicemente il suo vuoto”1. Sarà questo uno dei motivi per cui di socialismo, ormai, si sente poco o nulla parlare? Eppure l’epoca sembrerebbe quella giusta per rimetterne al centro della riflessione l’idea. Ovviamente, chiedendosi, ancora una volta, “Quale socialismo?”2: soprattutto in un momento in cui è evidente la grande difficoltà della tradizione progressista, per la sua incapacità di affrontare i problemi fondamentali della politica moderna, tra cui quello di distribuire la ricchezza in maniera più equa3.

Non è certo semplice parlare di socialismo – e quindi di un progetto non solo “rivoluzionario”, ma anche legato a tempi lunghi – nella nostra società dominata da una sorta di presentismo, “dove si assiste alla frenetica rincorsa di risultati, non importa (poi) quanto effimeri e irrilevanti”4. E dal momento in cui langue la crescita economica, che il sociologo americano Daniel Bell identificava “nella religione secolare delle società industriali avanzate”, si tende a scivolare (pericolosamente) nell’equivalente dell’ateismo5, con toni della politica che spostano l’accento dalla speranza alla nostalgia6.

La fine dell’età dell’oro, che in America, come in Europa, “si era caratterizzata per una tacita ma solida intesa fra capitalisti e lavoratori, attraverso una politica dei redditi”7, non ha trovato un degno sostituto che garantisse al socialismo democratico e al liberalismo un nuovo compromesso keynesiano, dove ritrovare coesione sociale e stabilità. Le regole del gioco cambiarono il 15 agosto del 1971, quando il presidente Nixon ed il Segretario al Tesoro americano J. Connally denunciarono unilateralmente i sistemi commerciali e monetari del Dopoguerra8. Dall’embedded liberalism, si passò rapidamente al casino capitalim, caratterizzato dalla separazione dei tassi di cambio, e della moneta in generale, dalla crescita economica reale9. Con la fine del sistema di Bretton Woods, che componeva “in modo del tutto coerente un armonico trio di politiche monetarie autonome, di cambi fissi e di crescente liberalizzazione commerciale internazionale”10, a farne le spese è stato soprattutto il sistema di Welfare State, garanzia principale di coesione ed eguaglianza sociale11.

Honneth si chiede se è ancora possibile una trasformazione dell’ordine sociale dato, ricostruendolo in senso socialista, nonostante le difficoltà presenti in una società sempre più complessa e interconnessa

Viene così meno anche l’auspicio di un liberista come Ernesto Rossi, secondo cui ”una migliore coordinazione degli investimenti e dei disinvestimenti con piani unitari riguardanti la produzione sociale, ed un più efficace controllo sulle varie operazioni di credito nell’interesse di tutta la collettività può ridurre il numero e la gravità delle crisi”12.

E’ già da prima della ormai tristemente famosa data del 15 settembre del 2008, giorno del crack di Lehman, che i socialisti (ed i progressisti) sono in una sorta di crisi di identità. Evidentemente, non sono bastate le Terze Vie, fondate su parole d’ordine come pro-enterprise, pro-business and pro-competition13, e che vedevano nella “espansione della economia cosmopolita la condizione per un’efficace regolazione dell’economia mondiale”14. Forsanche perché “gli Stati hanno radici, gli investitori hanno ali”15. Davanti a questa indubbia crisi del capitale legata al modello thatcheriano-reaganiano persino l’Economist, per celebrare i suoi 175 anni, ha redatto un “manifesto liberale” critico verso le linee guida dell’economia odierna, aprendo al reddito di cittadinanza universale, alla tassazione dei grandi patrimoni e alla lotta ai nuovi monopoli digitali16. Eppure, e nonostante ci sarebbe spazio, vista la situazione socio-economica generale, di socialismo si parla poco.

Axel Honneth sottolinea come, per la prima volta, “la divaricazione tra lo sdegno esperito (per la situazione attuale ndr) ed una qualsivoglia aspettativa futura […] è un fenomeno effettivamente nuovo nella storia delle società moderne”17. Manca l’utopia verso condizioni sociali e politiche migliori. Manca la narrazione, che definisce anche il senso della possibilità politica18. Nel suo libro19 Honneth si chiede se è ancora possibile una trasformazione dell’ordine sociale dato, ricostruendolo in senso socialista, nonostante le difficoltà presenti in una società sempre più complessa e interconnessa. Pur se sottolinea il carattere metapolitico delle sue riflessioni, l’autore analizza le ragioni interne ed esterne che hanno fatto perdere al socialismo il suo potenziale propulsivo. Pone la questione di quali modifiche concettuali siano necessarie al fine di ridargli slancio “per arrivare ad un ordinamento completamente diverso”, ricostruendo brevemente, ma efficacemente, la storia dell’idea originaria di socialismo, e sottolineandone i non pochi errori concettuali.

Figlia della rivoluzione industriale, l’utopia socialista emerse perché le idee di libertà, uguaglianza e fraternità della Rivoluzione francese erano rimaste pressoché lettera morta per le masse proletarie, tenute fuori da un’equa redistribuzione della ricchezza, che nel frattempo il sistema capitalistico era in grado di produrre copiosamente. Tutte le correnti del socialismo condividevano l’idea secondo cui la povertà delle masse poteva essere superata solo attraverso una nuova organizzazione della sfera economica. Obiettivo era conciliare i principi di libertà e fraternità, attraverso una ridefinizione del primo. Ma, sottolinea Honneth, “nei primi socialisti non trova adeguata considerazione una differenziazione (sociale ndr) che si muova nel senso della nuova libertà sociale”: concetto questo, come vedremo, a cui l’autore dedicherà un’ampia disamina. Mancavano allora quegli strumenti concettuali che avrebbero potuto definire il legame diretto tra la conquista della libertà individuale e le premesse per una vita in comune di tipo solidale.

L’analisi di Honneth passa attraverso la critica di quello che lui chiama il vecchio guscio concettuale del socialismo: le sue “tare originarie”

In questa direzione, un passo avanti lo compie Marx, che si avvale delle concettualizzazioni hegeliane formulando “una affilata strumentazione concettuale, pur se con grave opacità quanto alle ricadute politico-morali”. Marx critica quella che allora riteneva una “società di commercianti”, i cui membri si riferivano l’uno all’altro soltanto in una modalità indiretta, all’interno di un mercato anonimo dominato dal denaro come mezzo di scambio. Mossi solo dal loro vantaggio privato, gli operatori non avevano alcuna compartecipazione verso le vicende altrui. Mentre la soddisfazione dei bisogni umani necessiterebbe sempre dell’intervento complementare di altri soggetti, il capitalismo renderebbe invisibile questa dipendenza intersoggettiva.

Con Marx si cominciano a delineare le prime concettualizzazioni della “libertà sociale”, pur se in maniera labile: insieme a quelle di una società dove, tra i soggetti, c’è una interconnessione di obiettivi che sarà la base della sua alternativa al modello sociale capitalistico. Per quanto riguarda il concetto di libertà individuale elaborato dai socialisti di quel tempo, esso si inverava nella possibilità dei soggetti di realizzare le proprie intenzioni senza altre costrizioni che non fossero quelle derivanti dall’appartenere ad una società di altri uomini altrettanto liberi. La realizzazione individuale di un obiettivo ragionevole all’interno di un corpo sociale ”risulta libera soltanto quando incontri l’approvazione di tutti gli altri”, e giunga a compimento anzitutto grazie al contributo complementare di questi. Gli individui non avrebbero potuto mai realizzare la libertà individuale di per sé, senza fare affidamento sulle relazioni sociali. Da ciò si evince anche il concetto di comunità dei socialisti dell’epoca, caratterizzato soprattutto dal porsi l’uno-per-l’altro dei membri del gruppo. In questa comunità solidale la cooperazione deve valere di per sé, come pieno compimento della libertà: libertà sociale, ovviamente, dove i membri si aiutano reciprocamente.

Questa tesi della comunità solidale, secondo Honneth, venne limitata solo alla sfera delle attività economiche, ignorando anche l’intera sfera della formazione della volontà politica. La necessità storica del socialismo, quell’idea, per dirla con le parole critiche del riformista Bernstein, che dà l’illusione che il mondo cammini verso un regime predestinato20, non fece altro che rendere impossibile ogni riflessione sul presente. Venne così vanificato ogni tentativo riformista e di matrice più libertaria che incidesse nei rapporti sociali e politici man mano che se ne riscontrassero le esigenze e ne aumentassero le complessità.

L’analisi di Honneth passa attraverso la critica di quello che lui chiama il vecchio guscio concettuale del socialismo: le sue “tare originarie”. La prima riguarda il fatto che i socialisti collocarono tutte le libertà esclusivamente nella sfera delle attività economiche, tanto che “non si poté più disporre di alcun concetto cogente del politico, ma andò interamente perduto anche il lato emancipatorio degli uguali diritti di libertà”. La funzione politica dei nuovi diritti civili viene trascurata dai primi socialisti. Ed anche per Marx, che li considerò validi solo per un periodo determinato, i diritti individuali si sarebbero dissolti nella futura comunità socialista, in cui non rimaneva alcuno spazio per l’autonomia dei singoli.

Altra premessa sbagliata dei socialisti, a partire da Saint Simon, si rilevò secondo l’autore un vero “arbitrio teoretico”: ovvero, il ritenere che un’intera classe (gli operai dell’industria) aspetti il momento in cui verrà liberata dal giogo dei capitalisti. Si presume, quindi, che nella realtà sociale “si diano come già obiettivamente esistenti interessi e appetiti su cui far leva per giustificare e affermare le proprie intenzioni”, attribuendo così, apoditticamente, ad un unico soggetto collettivo un interesse unitario alla rivoluzione: con la conseguente difficoltà a ritrovare un legame di classe quando si è passati dalla società industriale a quella post-industriale.

Honneth arriva alla conclusione che un socialismo possibile è solo un socialismo totalmente postmarxista, attraverso l’individuazione di singoli elementi di teoria della società e della storia del socialismo classico

Altro problema è stato generato dalla loro teoria della storia, secondo la quale si assume senza riserve che i rapporti di produzione esistenti si dissolveranno da sé in tempi brevi. Tranne che per Proudhon, che vedeva comunque il cammino segnato ma caratterizzato da “sempre nuove conciliazioni tra classi”, il socialismo inteso come “riconoscimento di uno sviluppo irreversibile” determinava la marginalizzazione dell’azione degli attori coinvolti, ai quali non era richiesta neanche una vera consapevolezza. Rifacendosi a John Dewey, l’autore rimarca come questo assunto abbia precluso al socialismo “la possibilità di intendere se stesso nei termini di movimento volto a scoprire, anzitutto attraverso esperimenti sociali, come l’idea guida della libertà sociale sarebbe potuta esser realizzata nel modo migliore e più veloce a seconda delle condizioni storiche date”: non potevano rimanere spazi teorici per mediazioni o riequilibri istituzionali.

Viste queste premesse, Honneth arriva alla conclusione che un socialismo possibile è solo un socialismo totalmente postmarxista, attraverso l’individuazione di singoli elementi di teoria della società e della storia del socialismo classico, per arrivare a delle formulazioni più astratte e conformi al presente. Mentre per i primissimi socialisti non era ancora ben chiaro con che tipo di sistema economico avessero a che fare, con Marx invece ci fu la totale coincidenza tra il capitalismo e il mercato: privando con ciò il socialismo “di ogni possibilità di prendere in considerazione vie istituzionali di accomunazione dell’economia alternative all’economia pianificata centralizzata”. Per l’autore, invece, il socialismo rinnovato deve essere in grado di testare tutte le vie possibili tra quelle tracciate in economia: cosa decisamente in contraddizione con la premessa della regolarità storica degli eventi.

Rifacendosi sempre a Dewey, Honneth concorda con la tesi che le possibilità che riposano nella società hanno maggiore possibilità di essere realizzate se a tutti i membri viene permesso di partecipare nel modo più spontaneo e pieno: giocando la comunicazione un ruolo fondamentale, come unicamente Proudhon era stato in grado di intuire, perché solo in un clima di reciprocità può esserci un sano e robusto progresso sociale. Il socialismo diventerebbe “l’avvocato difensore” di quei nuovi gruppi sociali che nel volgere della modernità si formano e trovano, non di rado, barriere rispetto alle promesse di libertà, uguaglianza e fraternità.

All’interno di questo “sperimentalismo” socialista “il sociale deve essere inteso nel senso più forte del termine, sì che nell’integrazione delle loro attività tutti i partecipanti possano soddisfarvi mutualmente i loro bisogni senza ricorrere a pressioni o a costrizioni di sorta”. Si deve quindi procedere ad una decostruzione dell’ideologia del mercato dominante, perché i suoi fondamenti sono incompatibili con rendite da capitale e profitti da speculazione, verificando la possibilità di renderlo adatto a forme di coordinamento dell’agire economico di tipo cooperativo. E senza individuare un rappresentante collettivo unico e fisso a cui rivolgersi. Questo porta Honneth a indentificare nel “socialismo di mercato” una possibile forma economica dove possa vivificarsi la piena libertà sociale.

Questi limiti storico-politici dei socialisti, oltre che a non far comprendere il valore emancipatorio dei diritti civili, ha precluso un’indagine seria e approfondita sull’idea di “democrazia politica”: aspetto, questo, indagato ed elaborato largamente dai liberali. A testimoniare il loro imprigionamento nell’industrialismo c’è anche la “qualità” dell’apporto al movimento femminista, anch’esso dato solo in termini politico-economici, quando invece, oltre che al diritto di voto e alla parificazione sul mercato del lavoro, c’era da fare un vero intervento di carattere culturale più profondo. Per la mancanza di centralità ed autonomia dell’azione politica, rispetto alla sfera economica, non è stato possibile che le tre sfere del sociale – quella privata, quella della formazione della volontà politica e quella economica – acquisissero una loro “differenziazione funzionale”, propria ed autonoma. Mentre era necessario che anche al loro interno dominassero le condizioni per essere l’uno-per-l’altro in maniera spontanea, al fine di creare dei rapporti di libertà sociale.

Turati, quando immaginava il futuro partito, non pensava “ad un centro investito di poteri giacobini, ad un apparato organizzativo, legittimato da un sistema ideologico conchiuso e concepito come struttura esterna di egemonia su masse ineducate ed amorfe. Pensava ad una rivista, Critica Sociale

Secondo l’autore, le diverse sfere della libertà sociale dovranno accordarsi tra loro, mutuando per ciò il concetto di totalità organica di stampo hegeliano. La cooperazione delle varie sfere autonome di libertà potrà essere “definita quale incarnazione della concezione di una forma di vita democratica”: con l’auspicio che “i confini futuri tra le tre sfere della libertà sociale saranno tali per cui esse si sosterranno reciprocamente e spontaneamente come gli organi di un corpo, nella riproduzione dell’unità sovraordinata della società […] attraverso un funzionamento indipendente ma cooperativo e finalizzato a uno scopo”, pur se l’obiettivo non deve essere mai considerato come qualcosa di fisso.

Lo Stato-nazione non sarà più sufficiente come architrave di questo sviluppo sociale, pur se manterrà la sua importanza. La crescente interazione tra Stati richiede una politica trans-nazionale anche al socialismo. Il quale avrà comunque bisogno di un “centro attivo in grado di assumere in modo permanente la guida delle operazioni necessarie […], un organo istituzionale di una ‘sfera pubblica’ alla quale tutti gli interessati possano partecipare”. La comunicazione giocherà, in tutto questo, ancora un ruolo determinante. Secondo Honneth questo centro attivo, attraverso cui tutte le istanze provenienti dalle entità statuali troveranno il modo di influenzarsi sincronicamente, potrebbe essere costruito secondo il modello di organizzazioni operanti su scala globale, come le organizzazioni non governative Amnesty International o Greenpeace. Un modello che – a prima vista, e pur se in una logica “solo” comunitaria – sembra riprendere l’Open Method of Coordination: un meccanismo decisionale all’interno dell’Unione europea inaugurato dal Consiglio europeo di Lisbona del 2000, al fine di avere maggiore efficienza decisionale e partecipazione tra gli Stati membri: “Si tratta di un modo di promuovere la cooperazione e lo scambio delle pratiche migliori e di concordare obiettivi e orientamenti”21.

Honneth compie, con questo libro, un “tentativo di liberare il socialismo dalla gabbia rappresentata dal suo guscio concettuale ottocentesco […] per offrire una spiegazione che risulti ancora convincente delle esigenze normative fondamentali volte ad armonizzare i principi di libertà, uguaglianza e solidarietà atta a superare il liberalismo dall’interno”. Sicuramente è difficile sintetizzare un’elaborazione complessa, come può essere quella di creare le basi normative per una società socialista, in un testo che vuole essere prima di tutto agile e comprensibile. Tenere insieme l’elemento individuale e quello collettivo è cosa molto difficile. E lo sa bene anche la migliore storia del socialismo italiano, storia quasi sempre di minoranze, segnata da una logica riformista che tentava, viste proprio le situazioni date, di conciliare libertà ed uguaglianza.

Potremmo iniziare con Turati, che quando immaginava il futuro partito, non pensava “ad un centro investito di poteri giacobini, ad un apparato organizzativo, legittimato da un sistema ideologico conchiuso e concepito come struttura esterna di egemonia su masse ineducate ed amorfe. Pensava ad una rivista, Critica Sociale22. Perché il suo intento era quello “di mantenere sempre aperta, attraverso il dialogo, una possibilità di ampliamento della sfera di influenza del socialismo italiano in seno agli ambienti più avanzati della democrazia e della borghesia”23. Il suo essere marxista, pur se pragmatico, non gli impediva di interrogarsi continuamente sui rapporti tra democrazia e socialismo24. E continuare con Carlo Rosselli, che criticava apertamente Marx ed il suo sistema deterministico, perché “il problema centrale del marxismo, come dottrina del moto proletario, sta nel ruolo che esso assegna all’elemento umano, al fattor volontà”25. Per Rosselli “il marxismo è una costruzione dogmatica, non sopporta il bacillo critico”26: per cui non credeva affatto alla teoria della omogeneità della classe operaia, cara ai primi socialisti27, invitando i partiti socialisti europei a porre l’accento sul momento della libertà28.

E non era imprigionato in alcuna sfera economica Eugenio Colorni, quando riteneva indispensabile la costruzione di una federazione tra gli Stati europei, “perché la contraddizione essenziale, responsabile della crisi, delle guerre, della miseria e degli sfruttamenti che travagliano la nostra società, è l’esistenza di Stati sovrani”29. Come non era insensibile al valore sociale dei diritti civili Loris Fortuna, padre della legge sul divorzio nel nostro paese. E non miopi i socialisti che capirono che la società era cosa molto complessa, e tentarono, attraverso la teoria dei meriti e bisogni, di dare unità a tutte le sue sfere.

Un ultimo interrogativo lo pone il concetto di democrazia di cui Honneth si avvale, soprattutto nell’intento di superare dall’interno il liberalismo attraverso un socialismo rinnovato. Bobbio teneva a sottolineare che “il concetto di democrazia e quello di pluralismo non hanno, direbbe un logico, la stessa estensione. Si può benissimo dare una società pluralistica non democratica e una società democratica non pluralistica”30.

Axel Honneth, compie uno sforzo meritorio per tutti coloro che hanno a cuore l’idea di socialismo. Ci permette, senza alcun intento agiografico, di rivedere molte delle idee che hanno animato il movimento socialista italiano in senso critico e forse fecondo. Perché qualcosa è già stata detta ed intuita. Se ciò non è diventato “sistemico”, o politicamente maggioritario, è scritto nella storia di questo paese. La realtà contemporanea è molto complessa, potrebbe disincantare chiunque. Di fronte a ciò “una posizione filosofica di larga apertura critica, che mantenga fermo un sistema di valori, ma respinga ogni soluzione prefabbricata, come le fantastiche interpretazioni delle tendenze storiche, è probabilmente la sola che sarà in grado di fronteggiare sempre più complessi problemi che si porranno alla società umana”31. Così Gino Giugni: era il 1956.

1 G. ORWELL, Can socialists be happy?, articolo pubblicato sul Tribune il 24 dicembre 1943.

2 N. BOBBIO, Quale socialismo? Einaudi, 1976.

3 C. LASCH, Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica, Neri Pozza, 2016, p. 600.

4 G. DE RITA, A. GALDO, Prigionieri del presente, Einaudi, 2018, p. 6.

5 E. LUCE, Il tramonto del Liberalismo occidentale, Einaudi, 2017, p. 37.

6 Ibidem, p. 47.

7 G. RUFFOLO, Il capitalismo ha i secoli contati, Einaudi, 2008, p. 200.

8 R. DAHRENDORF, Il conflitto sociale nella modernità, Latenza, 1989, p. 142.

9 Ibidem, 143.

10 S. GIUBBONI, Diritti sociali e mercato, il Mulino, 2003, p. 31.

11 Ibidem, p. 22.

12 E. ROSSI, Critica delle costituzioni economiche, Edizioni di Comunità, 1965, p. 86.

13 G. BERTA, Eclisse della socialdemocrazia, il Mulino, 2009, p. 79.

14 A. GIDDENS, La Terza via, il Saggiatore, 1998, p. 141.

15 U. BECK, Potere e contropotere nell’età globale, Editori Laterza, 2010, p. 94.

16 R. SOMMELLA, Nell’era dei nuovi monopoli la rivoluzione è la persona, articolo apparso sull’Avvenire il giorno 6 ottobre 2018.

17 A. HONNETH, L’idea di socialismo. Un sogno necessario. Feltrinelli, Milano, 2016, p. 13.

18 D. GRAEBER e D. WENGROW, Come cambiare la storia dell’umanità, articolo apparso su Internazionale, n. 1277, anno 25.

19

20 C. ROSSELLI, Socialismo liberale, Einaudi, 1997, p. 25.

21 Comunicazione della Commissione del 25 luglio 2001.

22 Z. CIUFFOLETTI, M. DEGL’INNOCENTI, G. SABBATUCCI, Storia del siSI, vol. 1, Editori Laterza, 1992, p. 84.

23 Ibidem, p. 85.

24 Ibidem, p. 85.

25

26 ROSSELLI, op. cit. p. 24.

27 ROSSELLI, op. cit. p. 26.

28 ROSSELLI, op. cit., p. 60.

29 E. COLORNI, nella prefazione al testo di A. SPINELLI e E. ROSSI, Il manifesto di Ventotene, Mondadori, 2006, p. 4.

30 N. BOBBIO, Il futuro della democrazia, Einaudi, 1995, p. 54.

31 G. GUGNI, prefazione al testo di S. PERLMAN, Ideologia e pratica dell’azione sindacale, La nuova Italia, 1956, p. LXXII.