Ambizioso e stimolante è l’ultimo studio di Guido Baglioni, che si presenta con un titolo volutamente e non infondatamente “narrativo”: Un racconto del lavoro salariato1. In effetti si tratta di una lunga cavalcata sull’evoluzione del mondo del lavoro in Italia dai primi anni e dalle speranze del dopoguerra fino alla situazione attuale, con il suo carico di difficoltà e di incertezze. Una cavalcata condotta con vari strumenti, che vanno da quelli utilizzati nelle scienze sociali, ai paradigmi marxisti e alle loro conseguenze, ed ai dettami e alle applicazioni della dottrina sociale della Chiesa: senza disdegnare però la dimensione autobiografica e l’esperienza diretta, che integra e umanizza questo vasto itinerario (di qui l’allusione al “racconto”).

Baglioni, professore emerito di Sociologia presso l’Università Bicocca, è più noto come studioso delle relazioni industriali e del fenomeno sindacale, nonché come principale teorico italiano della partecipazione dei lavoratori. Per lungo tempo ha accompagnato e attraversato le vicende sindacali e in particolare seguito il consolidamento e l’evoluzione della Cisl, di cui è stato , oltre che tra i principali intellettuali di riferimento, anche una figura importante dal punto di vista dell’organizzazione della cultura e della formazione (da presidente prima del Centro Studi Cisl di Firenze e poi del Cesos, il Centro studi nazionale che si occupa di ricerca sociale e sindacale, due tra le strutture a lungo più prestigiose del mondo cislino). Ma in questo caso il sindacato si colloca piuttosto sullo sfondo e a valle della sua analisi, che ruota appunto intorno al lungo cammino, dal respiro di quasi settant’anni – e dunque potremmo dire pressoché secolare – del lavoro e dei lavoratori nella società italiana.

Già qualche anno fa un altro eminente sociologo del lavoro, Aris Accornero, aveva tratteggiato un ritratto del novecento, appunto secondo la sua ricostruzione “il secolo del Lavoro”: con la maiuscola, perché era il secolo che aveva ruotato, con diverse declinazioni, intorno alla “centralità” del lavoro. Accornero, che scriveva a cavallo del nuovo secolo, sottolineava il declino di quel ruolo assorbente. E individuava nuove insidie, come la crescente insicurezza legata in special modo alla diffusione di regimi di impiego temporaneo e precario, insieme però a importanti cambiamenti, come la diffusione – non lineare – di lavori a più alta densità cognitiva.

Baglioni va oltre, in quanto si spinge fino a decrittare le tendenze in atto nelle contemporanee economie globali, che hanno eroso anche alcuni dei caratteri portanti dei capitalismi ‘renani’: quelli che, a partire dalla Germania, sono stati plasmati dalle socialdemocrazie (ma non solo), e sono stati più orientati verso una conciliazione dinamica tra le ragioni delle imprese e quelle della protezione sociale del lavoro. L’erosione di quei capitalismi, socialmente più avanzati, porta con sé nella fase attuale un ridimensionamento delle posizioni che il lavoro aveva saputo accumulare in passato.

Nel confronto con Accornero potremmo dire che Baglioni è più ottimista (ma anche meno epico) in relazione al bilancio del secolo “fordista”: ma nello stesso tempo più disincantato e forse scettico intorno alle evoluzioni in corso. Ma andiamo con ordine. Dunque questo libro, come ci ricorda l’autore, è dedicato non ai numeri e alle tendenze del mercato del lavoro (aspetti che sono trattati con dovizia di informazioni), ma ai “significati socio-culturali del lavoro salariato”.

La storia che Baglioni ci racconta è comunque la storia di un avanzamento sociale dentro il quale la parola chiave è “benessere”

La periodizzazione proposta presenta una scansione in tre fasi. La prima, quella più descritta con gli occhi della scoperta , attraversa la storia repubblicana per arrivare al suo culmine negli anni settanta, quando il ruolo del lavoro – complici le lotte operaie – trova il pieno riconoscimento sociale e si caratterizza per un progressivo miglioramento della condizione lavorativa e degli stessi livelli retributivi: all’inizio più lento, ma successivamente più incalzante, anche come portato del pieno decollo economico.

La seconda fase dura fino all’incirca ai primi anni del nuovo secolo, e potrebbe essere definita come il periodo dell’assestamento. Quello in cui il lavoro e i lavoratori, nonostante l’esaurimento progressivo della regolazione fordista, nei paesi avanzati e dunque anche in Italia mantengono, sia pure più a fatica, una piena cittadinanza sociale.

La terza fase è quella che prende corpo a cavallo della crisi economico-finanziaria del 2008, che fa esplodere contraddizioni già da tempo incubate: è la fase che potremmo definire del ripiegamento. In essa nei paesi dell’Europa occidentale, e in special modo in Italia, il lavoro vede minacciate le sue acquisizioni precedenti: non solo la sua scarsità quantitativa vede l’esclusione o la mortificazione di tanti giovani nel mercato del lavoro, ma il suo stesso status qualitativo (non solo dunque la condizione materiale di lavoro, ma il suo posto nelle nostre società) è sottoposto a tensioni e passi indietro, aggravati da una maggiore marginalità delle ragioni del lavoro nella sfera pubblica.

La storia che Baglioni ci racconta è filtrata dalle sue esperienze, dalle elaborazioni degli scienziati sociali che cita, o dalle dottrine politiche ( socialdemocrazia e marxismo) e dagli insegnamenti religiosi: come ricordavamo, la dottrina sociale della Chiesa, intesa come fonte di ispirazione per gli attori politici e sociali, ma anche per l’elaborazione di numerosi intellettuali, fino ai Fanfani, Romani e Mengoni. Ma è comunque la storia di un avanzamento sociale dentro il quale la parola chiave è “benessere”. Il benessere è quello che manca nell’Italia uscita dalla guerra, quando questo viaggio muove i suoi primi passi; il benessere è l’acquisizione principale e il punto di arrivo (oggi spesso difeso con i denti) di quel cambiamento capace di segnare un riscatto: tanto più rilevante in quanto esteso, almeno per un pezzo consistente di storia, all’insieme dei lavoratori, inclusi gli strati più umili. Infatti il primo cuore, più riconoscibile, di questa storia è quello del gruppo emergente negli anni del dopoguerra: il gruppo dei lavoratori operai, “il gruppo sociale più corposo, ampio e con capacità di cambiare o migliorare la loro condizione”, secondo le parole dell’autore.

Lo strumento principe per questa promozione sociale generalizzata consiste in un metodo che potremmo chiamare per comodità “riformista”: quello che Baglioni descrive come impegno per migliorare in modo gradualista, mattone dopo mattone, e senza chimere di salti radicali, la condizione lavorativa e le tutele che le si accompagnano.

Per questa ragione l’attenzione privilegiata – e la valutazione positiva – del ragionamento dell’autore si indirizzano alle esperienze politiche e sindacali che meglio hanno incarnato e materializzato questo percorso sociale di miglioramento incrementale. Quindi da un lato la socialdemocrazia, non solo come approccio ideologico, ma soprattutto come pratica politica, che ha preso corpo in primo luogo nelle importanti democrazie del centro e nord Europa e nelle loro realizzazioni sociali. Così Baglioni ci ricorda che in effetti “nel secondo dopoguerra la socialdemocrazia è la più rilevante e diffusa prospettiva di correzione dell’economia capitalistica sul piano sociale e per la valorizzazione del lavoro”.

Da un altro lato, e non casualmente, la valorizzazione del ruolo giocato dalla Cisl nel mondo sindacale per fornire un retroterra a questa prospettiva: quello dei modelli pluralisti dell’azione sindacale e della concezione associativa dal punto di vista del profilo organizzativo. Ma anche per innervarla su precise gambe contrattuali, che al momento attuale si sostanziano nell’obiettivo di rafforzare la contrattazione in azienda, in quanto la “tutela nei luoghi di lavoro dovrebbe essere più concreta , profonda e tempestiva rispetto a quella di livelli più ampi”. E nella sfera sindacale, nonostante la dichiarata affinità con gli orientamenti cislini, non mancano i riconoscimenti relativi al ruolo utile giocato anche dalle altre principali Confederazioni (incluso l’abbandono progressivo di posizioni dogmatiche da parte della Cgil).

L’idea che il mondo del lavoro avesse nella sostanza risolto brillantemente i suoi principali problemi non è infondata, ma è portata a sottovalutare i gradi di insoddisfazione e di disagio persistenti nella condizione lavorativa

Dentro questa ricostruzione esiste anche un chiaro contraltare, che anch’esso svolge il ruolo di filo conduttore per così dire speculare: il rigetto per quelle ideologie del riscatto che hanno preso corpo all’interno del mondo comunista, e che hanno fatto sempre fatto leva sul non contentarsi del miglioramento graduale, per puntare invece sulla necessità di una trasformazione tanto più radicale quanto spesso indistinta o impraticabile. Anche se Baglioni riconosce la maggiore complessità della storia del Pci in Italia, difficilmente racchiudibile sotto l’etichetta di uno schematico antagonismo: “ La cultura e la prospettiva della politica comunista avevano una profondità antagonistica ma di fatto componibile con processi e attori poco o nulla antagonistici”.

Questa ricostruzione comunque si compone di una ricchezza di esempi e di episodi, oltre che di approcci scientifici, di cui non è possibile in questa sede dare conto in tutta la sua varietà.

Essa appare anche nel suo insieme convincente: questa traversata verso un miglioramento ragionevole, l’unica prospettiva effettivamente praticabile nelle economie capitaliste (e tale da esaltare il contrattualismo come fondamento dell’azione sindacale).

Sorgono maggiori dubbi sulla cornice costruita intorno alle tendenze attuali. Anche a partire probabilmente da una visione eccessivamente pacificata in relazione al passato (di cui si smarriscono le aspre tensioni e gli approdi irrisolti). L’idea che il mondo del lavoro – grazie alla crescita economica e dunque a quella conseguente del benessere – avesse nella sostanza risolto brillantemente i suoi principali problemi non è infondata, ma è portata a sottovalutare i gradi di insoddisfazione e di disagio persistenti nella condizione lavorativa. E corre il rischio di essere anche fuorviante politicamente.

Infatti il giudizio sulla socialdemocrazia appare distorto da questa convinzione. Quando Baglioni sostiene che dopo l’età dell’oro “ il cammino della socialdemocrazia diventa meno incisivo […] perché buona parte dei suoi obiettivi sono stati raggiunti” sottolinea a ragione i grandi successi del compromesso socialdemocratico (l’arte di “quadrare il cerchio”,’ secondo Dahrendorf). Ma tende a sottovalutare che quei risultati fondamentali per il lavoro classico – che per comodità chiamiamo fordista – non costituiscono la fine della storia.

Il lavoro si è trasformato nell’ultimo trentennio, diventando più discontinuo, ma spesso più ricco nei contenuti, più eterogeneo e difficile da aggregare, più accidentato e mobile nei percorsi: al punto che Accornero ha proposto di parlare di “lavori” al plurale. E qui la sinistra europea, principalmente quella di ispirazione socialdemocratica, è stata sfidata a trovare nuove chiavi che non ricalcassero semplicemente le ricette del passato. In questa angolatura deve essere letta la terza via di Blair e la ricerca di nuovi paradigmi capaci di conciliare capitalismo e benessere diffuso. Ma non c’è dubbio che questo indirizzo (molto più orientato a lasciar fare al mercato rispetto alla prima socialdemocrazia, che il mercato voleva indirizzarlo), dopo aver suscitato attese e prodotto buoni risultati, si sia esaurito per le sue difficoltà su entrambi i lati: nella capacità di garantire una crescita sostenuta, e nella capacità di estendere i benefici sociali a larga parte dei “lavori”.

Ecco perché la terza fase di Baglioni è così problematica. I principali attori collettivi – partiti, ed anche sindacati, espressione del lavoro classico – si sono fin qui dimostrati inadeguati nel trovare politiche efficaci a scala delle diverse facce dei “lavori” contemporanei. E quindi tendono a rappresentare segmenti più ridotti delle loro società, rivelandosi non all’altezza di fornire una bussola (e adeguate protezioni) alla parte più debole, economicamente e culturalmente, dei lavoratori. Poco male se i “lavori”, e quei lavoratori, venissero riscattati attraverso altre vie, nuove ideologie o nuovi orizzonti riformatori. Ma dal momento che così non è, dobbiamo ritenere che questa lunga storia possa continuare, passando però attraverso innovazioni rilevanti, se intende giocare un ruolo rilevante analogo a quello dei cicli precedenti.

Dobbiamo chiederci se accanto ai fattori oggettivi che relativizzano il peso del lavoro non bisogna mettere di più l’accento sulla inadeguatezza soggettiva dei partiti di sinistra e dei sindacati

Per queste ragioni quello che Baglioni chiama “un buon cammino che si è arrestato”, mentre rende evidenti tutti i problemi attuali, allo stesso tempo ci interroga sulle potenzialità di uno scenario che non è fatto solo di aspetti critici e di declino inarrestabile. Sono due i punti fermi nel ragionamento dell’autore. Da un lato il deciso miglioramento della condizione media dei lavoratori all’interno di questo percorso di lungo periodo: un bene storico da preservare.

Da un altro lato il peggioramento tendenziale cui è esposta tanta parte del lavoro: “Una parte dei lavoratori non trova lavoro, svolge mansioni faticose e sgradevoli, non arriva ad un decente tenore di vita”.

Tra le ragioni che producono un quadro di crescente insicurezza sociale Baglioni cita il rallentamento della crescita (nei paesi più avanzati), e la prevalenza delle diversità tra i lavoratori, che comporta anche il venir meno di una identità forte e omogenea. Mentre non bisogna sottovalutare, in positivo, l’avvicinamento dei paesi emergenti a soglie di maggiore benessere, non c’è dubbio che quelli a noi più vicini, un tempo decisamente più caratterizzati da un capitalismo socialmente protettivo, oggi stentino a mantenere le loro posizioni (e questo riguarda in particolare l’Italia, uno dei fanalini di coda dei paesi occidentali).

In questo ritratto preoccupato, ma anche un po’ sconsolato, Baglioni da un lato mostra la minore capacità di animazione sociale e di costruzione di speranza espresse dai soggetti socio-politici del cammino dell’emancipazione del lavoro, da un altro il fatto che la questione del lavoro è diventata meno “decisiva”. Ma arrivati a questo punto, nel condividere molte delle analisi e delle valutazioni dell’autore, dobbiamo chiederci se accanto ai fattori oggettivi che relativizzano il peso del lavoro (come l’emergere di altre questioni centrali) non bisogna mettere di più l’accento sulla inadeguatezza soggettiva dei partiti di sinistra e dei sindacati. In realtà uno dei punto nodali di questo deperimento del lavoro deriva a mio avviso anche dal fatto che gli attori tradizionali (partiti di sinistra e sindacati) hanno in mente, e in parte aggregano, un “altro” lavoro, diverso da quello – intelligente, spezzettato e fluido – che pervade le nostre società. Ma questa variabile – le politiche e i risultati prodotti da questi attori – è proprio una delle variabili principali di cui parla Baglioni: la capacità strategica del “lavoro organizzato” che ha tanto contato nei successi del Novecento.

Nella fase attuale questa capacità si è rattrappita, pur davanti a problemi crescenti che vengono dalla condizione lavorativa: nuove insicurezze e segmentazioni maggiori, ma anche domande di tutele di maggiore qualità ed individualità, che producono una massa critica di contraddizioni forse più dispersa e mobile, ma certo non meno intensa di quelle precedenti.

E dunque, anche se questo aspetto – come rilevato – resta volutamente sullo sfondo del ragionamento di Baglioni, lo dobbiamo necessariamente rimettere al centro, con un interrogativo: esiste ancora un legame chiaro tra sorti del lavoro e del sindacato? O questo legame è saltato, e saranno altri attori ad occuparsi dei nodi materiali e redistributivi (come per esempio ha fatto Renzi in Italia con gli 80 euro per i redditi più bassi)?

In realtà una interdipendenza tra sorti del lavoro e del sindacato sembra ancora forte: il lavoro è più periferico, perché il sindacato conta di meno (e perché la sinistra classica se ne occupa di meno). E’ possibile – come dicono alcuni – che i sindacati siano condannati ad un declino inarrestabile, e dunque bisognerà sempre meno parlare di “Lavoro” come soggetto unitario, e sempre più di tanti lavoratori, variamente rappresentati. Ma neppure si può escludere che i sindacati, superate le attuali incrostazioni conservatrici, siano capaci di un rinnovamento che li riporti – come è successo negli anni sessanta e settanta – nel cuore sociale dei problemi del lavoro nelle nuove dimensioni che hanno assunto. Molto dunque dipende dall’immaginazione sindacale e dalla capacità di questi organismi – ancora largamente forti e vitali – di rielaborare e fornire una prospettiva di innovazione alle tante identità sociali del lavoro.

1 G. BAGLIONI, Un racconto del lavoro salariato, Il Mulino, 2014.