Di Realismo Capitalista se ne è tanto parlato e se ne continua a parlare, anche se non più in termini di novità dato che la lezione di Fisher sembra essere stata assimilata, almeno da una parte della sinistra più giovane e frequentante gli spazi culturali digitali.
Il libro è infatti uscito nel 2018 per Nero Edizioni, casa editrice che ormai è un vero caposaldo della nuova sinistra internettiana-cyborg che si nutre della cosiddetta theory, una serie di riflessioni che si rifanno a Foucault ma con una forte impronta futurista/futuribile, cercando di immaginare un futuro diverso, migliore o peggiore che sia (non a caso nel catalogo troviamo pure Donna Haraway, Bifo e Nick Srnicek).
Realismo Capitalista però è un testo del 2009, scritto a ridosso della crisi economica e considerato la summa delle riflessioni di Fisher, raccolte inizialmente, nei primi anni 2000, in un blog noto come k-punk. Anche in questo caso quindi, come per il mese scorso, si tratta di una sorta di pamphlet ma piuttosto completo, riesce a sviluppare un singolo argomento cercando di chiudere il cerchio nella miglior maniera possibile.
I dieci anni pesano soprattutto per lo stile di scrittura dai toni un po’ cupi e per i riferimenti pop presenti nel libro che non per i contenuti, i quali non hanno di certo perso lo smalto in quanto sembrano previsioni molto puntuali del futuro. Nonostante ciò l’aggancio alla cultura pop è molto utile per veicolare il messaggio, i riferimenti sono calzanti e la lettura procede gradevolmente.
Il punto centrale del testo è cercare un’alternativa, un’alternativa al there is no alternative, il famoso slogan usato da Margaret Thatcher che definisce il sistema del libero mercato e del capitalismo come l’unico possibile. In questa ricerca riesce ad evidenziare come quello che noi diamo per scontato, come se fosse la scelta più razionale o addirittura non ideologizzata, in realtà è un costrutto della società e profondamente ideologizzato. Essendo dominante chiaramente, viene fatto passare come l’unica possibile normalità. La riflessione si pone forse più a sinistra di un socialismo liberale o di una socialdemocrazia, ma il porsi questo tipo di domande e visualizzare con precisione il realismo capitalista – termine coniato proprio per evidenziare la concezione ideologica, al pari dell’ex realismo socialista – dovrebbe essere fondamentale per tutta la sinistra.
Tra i temi affrontati è molto interessante la precisione con cui identifica problematiche che oggi sono completamente esplose, in particolare i disturbi dell’attenzione e i disturbi psichici.
Ne fa esperienza diretta tramite gli studenti dei suoi corsi: sono distratti e la loro soglia dell’attenzione è bassissima, non riescono a rimanere concentrati per molto tempo se non con un altro stimolo di “sottofondo”, come per esempio la musica (o il solo tenere le cuffie).
Oggi la diagnosi di ADHD, cioè del deficit di attenzione e iperattività, sta emergendo sempre di più tra i disturbi diagnosticati. Se Fisher era riuscito a percepirlo, ora non ci sono più dubbi sull’esistenza dell’”era della distrazione”, conseguenza dei medium digitali a cui facciamo sempre più ricorso – e che fanno di tutto per tenerci attaccati ma perennemente distratti.
La depressione, altro disturbo che mette a fuoco, avendone sofferto in modo molto acuto, è l’altra malattia del capitalismo. Anzi, è LA malattia del capitalismo, individuando in essa una causa sempre più sistemica, causata dai ritmi schizofrenici della società competitiva e produttiva. Fisher vede nell’importanza del gruppo e del riconoscere la malattia la possibilità di creare una consapevolezza che porti ad una ribellione verso il sistema. Contrapposto alla possibilità di una politicizzazione potenzialmente emancipatoria dei disturbi mentali egli definisce la cosiddetta convinzione del “volontarismo magico” diffusa in ogni ambito della società, dai reality show ai guru del business fino alle stesse consulenze psicologiche. Quest’idea, strettamente ideologica, porterebbe gli individui a concepirsi come dotati di infinite potenzialità rispetto alla società e alla propria “realizzazione” personale, al contempo giustificando ogni frustrazione, malessere o disturbo come esclusiva responsabilità del soggetto che “non ci ha provato abbastanza” e dunque “si merita” la propria condizione. Un vero e proprio victim blaming sistemico.
Essendo molto crudo nel descrivere il sistema capitalista, risulta ancora più crudo nell’evidenziare quanto ogni tentativo di sfuggirgli – con collettivi, teorie, pratiche e movimenti – sia impossibile in quanto l’anticapitalismo viene sempre inesorabilmente inglobato e fatto entrare nel sistema. Si può dire che aggiorna la Società dello spettacolo di Debord ai giorni nostri: lo spettacolo è andato molto più avanti ed ha assunto sfumature verdastre dal sentore cyberpunk. Almeno nel libro, dieci anni dopo la situazione è decisamente più rosata e affine agli anni ‘80, forse per narcotizzare gli echi troppo cupi.
Il capitalismo è quindi un virus, un Agente Smith, che pervade ogni ambito della società, dalla salute mentale e culturale a quella fisica, come del resto abbiamo sperimentato – e continuiamo a sperimentare – con la pandemia e la situazione in cui annaspano i servizi sanitari mondiali. Realismo Capitalista è quindi, oltre ad essere un testo chiave, un tentativo personale di non arrendersi al capitalismo, da lui considerato una patologia alla stregua della depressione che ha vissuto. Un altro dato biografico che può aiutarci a comprendere il perché di questo scritto e anche il motivo per cui non sembra darci risposte è il fatto che Fisher non fosse un accademico, ma un professore ed un militante attivo negli ambienti controculturali. Non a caso la sua attenzione sarà rivolta principalmente verso i network e la comunicazione, riesce a capire con anticipo l’importanza degli spazi digitali comunque non escludendo del tutto il dialogo con la cultura e la politica “mainstream” (a onor del vero il contatto era visto in un’ottica di infiltrazione nei canali ufficiali). L’idea principale era comunque abbandonare la dicotomia tra l’ipotesi marxista ortodossa di una irrealizzabile rivoluzione (per mezzo di un partito centralizzato oramai anacronistico) e l’altrettanto inefficace spontaneismo anarchico che acriticamente si distanzia da ogni solidità organizzativa o istituzione, ipotizzando un approccio flessibile in grado di coinvolgere tutte le anime della sinistra in una lotta critica e libera da rigidità dogmatiche ma al contempo creativa e intransigente su certe tematiche chiave, in opposizione alle impotenze della socialdemocrazia tradizionale. In effetti Fisher fa parte di quei personaggi che, orbitanti negli ambienti della CCRU (Cybernetic Culture Research Unit) ai “tempi d’oro” di Nick Land e Sadie Plant (fondatori del collettivo e suoi più eminenti teorici), hanno tentato (come anche Nick Srnicek e Alex Williams, celebri autori del libro “Inventare il futuro” o il nostro Franco Berardi, studioso che prende tanto dall’operaismo quanto dal cyberpunk) di incanalare in senso progressista le multiformi e radicali energie intellettuali prodotte dall’embrione dell’accelerazionismo britannico ipotizzandone una sintesi post-capitalista più affine ai tradizionali obiettivi della sinistra (quella che poi sarà generalmente identificata, anche con il contributo di altri autori, come xenoleft).
Quale alternativa e quale possibilità di sopravvivenza quindi? Il tutto sembra ripetere la tipica parabola delle analisi di sinistra, meravigliose e precise ma che non riescono mai a sfondare la parete, non riescono a trovare la porta di uscita dal Truman Show. L’alternativa rimane quindi prettamente culturale e poco politica. Non che le due cose non debbano andare di pari passo, anzi, ma l’ambiente anticapitalista è pieno, se non saturo, di alternative culturali che, come ci ricorda lucidamente Fisher, sono pronte ad essere riassorbite.
Se le soluzioni anticapitaliste più innovative, culturali ma anche politiche, vengono inglobate e rendono il sistema ancora più indistruttibile, chi ci assicura che la stessa consapevolezza di questa dinamica (che è sicuramente una delle parti fondamentali dell’analisi del libro e sulla quale si dovrebbe poggiare un ipotetico antagonismo) se recepita fine a sé stessa e priva di un’ulteriore evoluzione o progetto concreto, non possa essere facilmente scaricata nel pantano dell’inattività? Sicuramente l’alternativa suggerita non è radicale dal punto di vista pratico quanto può essere illuminante sul versante descrittivo, poiché oltre allo scuotimento culturale Fisher pare flirtare con una sorta di socialismo democratico “riformista”, radicale nelle intenzioni e ripulito dalle scorie della politica neolibertista.
Quello che non emerge però, è proprio il punto della questione: c’è realmente un’alternativa? Nonostante la lucidità dell’analisi sembra non riuscire a rompere il there is no alternative, almeno non in questo scritto. Il finale quindi lascia l’amaro in bocca, sembra manchevole, ma in effetti quello che Fisher fa, oltre a lanciare il guanto – che non è poco -, è dare una chiave di accesso, o un’uscita di emergenza.
Forse non si rende conto, come altri teorici progressisti a lui affini, che gli stessi processi capitalistici che si vorrebbero “domare” o “umanizzare” in rinnovate forme di comunitarismo democratico ed egualitario potrebbero rivelarsi molto più grandi, alieni e complessi di ciò che simili progetti (o abbozzi di progetti) desiderino, o immaginino.
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