E’, come sapete, lo slogan conclusivo della pubblicità del Mulino bianco. Quella in cui il mugnaio Banderas, in dialogo festoso con galline, lavoranti e giovanissimi consumatori dei suoi prodotti, sforna a getto continuo (dal produttore al consumatore) sempre nuove naturali e genuine delizie. Nulla di più lontano dalla realtà, ovviamente: non esistono più mulini e mugnai; mentre la biscotteria del sullodato Mulino bianco sarà il frutto di fabbricazioni di serie, in fabbriche anonime e da parte di multinazionali magari sulla lista nera di qualche Ong per pratiche antisindacali o per aver venduto latte in polvere scaduto in qualche paese del terzo mondo.
Quisquilie. Perché quella pubblicità sarà anche fuorviante; ma è una metafora illuminante del mondo di oggi. O più esattamente dell’immaginario collettivo di componenti importanti delle sue èlites politico-culturali, in particolare in Europa e, più marcatamente ancora, nel nostro paese. Si è parlato, a questo riguardo, di “politicamente corretto”. Quasi a suggerire qualcosa di artificioso e di imposto. Ma non è così. E non è così perché stiamo parlando, appunto dell’immaginario collettivo e del suo mutamento: fenomeni grandiosi e, a tutt’oggi solo parzialmente esplorati.
Ci limitiamo qui a definire, a spanne, l’entità e la natura di questo mutamento. In sintesi, siamo passati da un universo dominato dalla politica e dal conflitto a un mondo intriso di sensibilità e di categorie morali. Dal ventesimo al ventunesimo secolo. Nella storia dell’Europa, un’assoluta novità. Questa “sensibilità unica”ha costruito il suo nuovo Pantheon. Fatto non più di modelli ispiratori della propria condotta politica e dei propri comportamenti pubblici (come furono in secoli lontani i rappresentanti del principio d’autorità, e in quelli più recenti i grandi intellettuali costruttori di sistemi), ma di testimonial autorevoli del proprio retto sentire (da Mandela a madre Teresa, tanto per capirci). E colloca nel proprio Pantheon domestico – come è avvenuto qui da noi – i politici, appunto, di retto sentire, respingendo gli altri nelle tenebre eterne prescindendo totalmente dalla natura e dagli esiti delle loro scelte politiche (ogni riferimento a persone reali, come Berlinguer e Craxi, è puramente casuale). Da qui a confondere la politica con l’etica o, più esattamente, a ritenere che i canoni interpretativi della prima derivino dalla seconda, non c’è che un passo.
Questa “sensibilità unica” rifugge (magari, dati i precedenti, per ottime ragioni) da qualsiasi ambizione sistemica. Rinunciando, così, ad interpretare e gestire quello che non è in grado di vedere. Si emoziona e reagisce rispetto a quello che vede: le minoranze e i loro diritti. Che si tratti di omosessuali o di portatori di handicap, di ciclisti o di vittime della violenza domestica; oppure, nel mondo esterno, di quanti manifestino contro il potere, da Bengasi al Cairo, da Istanbul a Kiev. In tutto ciò, attenzione, non c’è alcuna esaltazione del valore del conflitto. Al contrario. Se si affrontano i problemi della società in termini di diritti delle minoranze è perché si ritiene che questi non siano un effetto collaterale di una crisi più generale da affrontare magari in modo radicale, ma piuttosto la manifestazione visibile di ingiustizie residuali da sanare.
Questa “sensibilità unica” ama il naturale e il genuino. Che si tratti di aria, cibo o energia. Perciò odia l’atomo e gli Ogm come prodotti di una scienza manipolata e deviata. Per la stessa ragione ama la bicicletta, il biologico e le energie rinnovabili. Questa “sensibilità unica” ama, infine, l’Europa. Si riconosce senza se e senza ma nelle sue istituzioni e nelle sue regole. Anche qui senza particolari ambizioni sistemiche, ma perché alternative permanenti agli orrori del passato. Sono le dichiarazioni inequivoche sul valore etico dell’adesione all’euro, ieri di Ciampi oggi di Napolitano. E’ l’immagine forte di un’Europa senza confini proprio perché portatrice di valori e di diritti nei rapporti con i suoi cittadini e con il mondo esterno.
Questa “sensibilità unica” ha infine una data di nascita, o per meglio dire un evento di riferimento. Parliamo, naturalmente, della caduta del muro di Berlino. Per molti la fine della storia, con la vittoria totale degli Stati Uniti e dell’Occidente. Nell’universo buonista, la fine dei conflitti alimentati dall’ideologia; l’occasione storica per una gestione illuminata e consensuale dei problemi e delle crisi. Due visioni, diciamo, complementari. E che hanno trovato momenti di sintesi (quasi sempre con idee europee, ma con mezzi materiali americani) nella breve, intensa e in definitiva fallimentare stagione dell’interventismo “democratico”. Attenzione però a confonderle tra loro. O peggio ancora a considerare la seconda come falsa coscienza o copertura ipocrita della prima.
E qui tocchiamo le radici di fondo della cultura buonista. E, per dirla tutta, anche le ragioni della sua congenita debolezza. In sintesi, il buonismo non esprime energia e volontà di cambiamento: e quindi capacità progettuale. Non inizia, conclude. Nulla a che fare con le èlites europee dei secoli scorsi e con le loro ambizioni totalizzanti e spesso luciferine. E nulla a che fare, soprattutto, con la cultura del conflitto. Il buonista rifugge con orrore dal conflitto. E non perché lo conosce e ne valuta le potenzialità distruttive. Ma piuttosto perché non lo vede. E non lo vede perché non vuole vedere il Male: la politica come sangue e merda, i suoi protagonisti e le sue vittime, l’irregolare e l’irrazionale.
Ora, come ci insegna la cultura cristiana, per combattere il male o anche solo per governarlo, bisogna conoscerlo, anzi viverlo. In caso contrario, non abbiamo le risorse per affrontarlo. Il buonista, invece, sa solo fare delle prediche. Che si tratti degli ultras autori di cori “territorialmente discriminanti” o di Vladimir Putin. E con lo stesso esito.
La sua posizione è dunque estremamente fragile. E lo è in particolare nel nostro paese. Un paese in cui (a differenza di quasi tutti gli altri) una sinistra di matrice comunista, da sempre culturalmente egemone, si è bruscamente convertita senza se e senza ma dal terreno dell’ideologia a quello della sensibilità, così da recuperare come custode dei valori la diversità/superiorità esercitata in passato come custode della storia e della sua corretta interpretazione. Una svolta immediatamente pagante, ma alla lunga fattore di debolezza. Perché anche in politica vige la legge dei rendimenti decrescenti.
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