Sinistra di governo: espressione diventata di gran voga nell’Italia degli ultimi decenni del secolo scorso e nei primi decenni del nostro, ma il cui valore politico-culturale appare ancora tutto da chiarire. Allo stato ne esistono due versioni: l’una ufficiale e alta, l’altra inespressa e, per così dire, “di pancia”.
Per la prima, la sinistra non deve necessariamente avere dei ministri e dei sottosegretari. Ma comportarsi come se li avesse. Passando “dalla protesta alla proposta”. Si potrebbe osservare, a questo punto, che posta in questi termini siamo alla scoperta dell’ombrello. Perché, giustamente, e da tempo, relegate in soffitta l’attesa massimalista del crollo inevitabile del sistema e/o la preparazione dell’evento rivoluzionario, la sinistra italiana, né più né meno delle altre, è insieme protesta e proposta, di opposizione e di governo.
E allora, se non è un semplice flatus vocis, chiedere una sinistra di governo ha a che fare non con le sue proposte ma con la qualità delle medesime. Si chiede insomma che queste siano insieme razionali e ragionevoli. Razionali, nel senso di offrire soluzioni corrette ai problemi del paese. Ragionevoli, nel senso di offrire soluzioni compatibili con gli equilibri esistenti e quindi accettabili da parte del sistema. E lo si chiede dando in qualche modo per scontato che il ragionevole faccia, al dunque, premio sul razionale: che insomma di “soluzioni corrette” ce ne possa essere soltanto una: quella dettata dai nostri vincoli internazionali e dalla salvaguardia del sistema Italia.
Si potrebbe obiettare che in un contesto del genere sparisce la democrazia come possibilità di conflitto; e che magari scompare anche la sinistra. Obiezione fondata: ma fatalmente indebolita dal fatto che all’atto pratico non si vede all’orizzonte (e ahimè non solo in Italia) una sinistra in grado di offrire proposte alternative che obbediscano al criterio della razionalità anche se non necessariamente (almeno nell’immediato) della ragionevolezza. E allora, in attesa di futuri eventi, il discorso alto sulla sinistra di governo ha qui e oggi un puro valore di provocazione (nel senso più ampio del termine).
Possiamo allora occuparci del discorso basso. Quello della politica come sangue e merda. E quello esemplificato dal teorema Catalano: “stare al governo è meglio che stare all’opposizione”. Agli occhi di un osservatore di oggi, una considerazione scontata. Ma le cose non sono così semplici. Non lo erano nei lunghi decenni successivi alla seconda guerra mondiale, quando il problema sarebbe stato considerato addirittura irrilevante. Non lo sono oggi, quando sarebbe apparso invece centrale, ma impossibile da risolvere in modo soddisfacente.
Due universi di riferimento radicalmente diversi. Nel primo, caratterizzato da grandi speranze collettive e da risorse disponibili sempre crescenti, chi – come la sinistra – rappresentava il futuro percepiva come una risorsa, e non come una menomazione, stare all’opposizione del presente; collocazione che tra l’altro gli garantiva tutti i vantaggi connessi al processi di inclusione sociale senza dover darsi carico delle relative responsabilità.
Nel secondo, tutto – dal dominio del “qui e oggi” alla dissoluzione del sistema politico e sociale – sembra spingere nella direzione del primato dell’esecutivo e quindi dell’affermazione indiscussa del teorema di Catalano. “Al governo si deve andare perché il governo è tutto”. Non è però la conclusione di un dibattito politico. E’ la constatazione di uno stato di fatto. E’ il punto di arrivo di una corsa in cui via via sono scomparsi i vecchi partecipanti collettivi per essere sostituiti da una persona sola il cui valore aggiunto sia nell’assenza di qualsiasi “laccio e lacciuolo” ereditato dal passato. Non siamo, insomma, felicemente arrivati alla “sinistra di governo” (quella, tra l’altro, non ha dato grandi prove di sé). Abbiamo invece felicemente scoperto Renzi al governo.