Il Jobs Act, il piano di riforme del governo Renzi su lavoro e welfare richiederebbe un cambio di passo nelle politiche di formazione, particolarmente di quella professionale. Sappiamo anche che la formazione potrebbe avvantaggiarsi di fondi di finanziamento comunitari e nazionali a nove zeri. Ogni Stato membro contribuisce al finanziamento dell’Unione e riceve una dotazione per investimenti per la crescita.
L’Italia è il terzo contribuente netto dell’Ue e riceve una dotazione pari a circa il 60% del suo contributo. Una parte significativa della dotazione che riceve ciascun paese deve essere utilizzata nell’ambito di programmi generali di investimento stabiliti dall’Unione e finanziati mediante specifici fondi (detti anche fondi strutturali), principalmente il Fondo sociale europeo (Fse), rivolto alla formazione, ed il Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr) per gli interventi strutturali.
I finanziamenti all’Italia sono prevalentemente affidati alle Regioni, che di conseguenza si occupano degli obiettivi specifici da realizzare: e quindi della stesura ed emissione dei bandi di gara che regolano l’assegnazione dei fondi a loro disposizione, delle conseguenti attività di controllo e dei pagamenti. Va sottolineato che ogni paese è tenuto a cofinanziare con un pari importo la dotazione assegnata dalla Ue. Si tratta quindi di cifre notevoli con le quali alcuni paesi europei hanno per esempio ammodernato i loro sistemi di trasporto e la formazione.
I programmi generali europei hanno una durata di sette anni: si è appena concluso quello 2007-2013 ed è all’avvio quello 2014-2020. Alla fine, si noti bene, le dotazioni eventualmente non spese dai singoli paesi vengono riassegnate ai paesi più virtuosi. Nel periodo di programmazione 2007-2013 l’Italia ha versato complessivamente circa 106 miliardi di euro quale contributo al bilancio Ue, e ha ricevuto accrediti per circa 65 miliardi di euro (di cui 28,8 miliardi di euro per i fondi strutturali); il nostro apporto netto è stato pari a 41 miliardi di euro. Ma il saldo negativo è destinato a salire perché le risorse effettivamente impiegate sono risultate pari al 53%.
In sostanza per l’Italia è una partita di giro in perdita: il sostegno europeo attraverso i fondi è un sostegno che l’Italia deve realizzare con proprie risorse, e la perdita si raddoppia perché le regole comunitarie impongono il cofinanziamento dell’assegnazione relativa ai fondi con un pari importo. E purtroppo non manca il colpo finale: dotazione e cofinanziamento dei fondi sono spesi prevalentemente per iniziative di scarsa utilità pubblica.
L’Italia spende la gran parte dei fondi europei a pioggia e per progetti di nessuna utilità strategica. La gran parte delle nostre amministrazioni deputate al compito di rendere fruibili i fondi europei sono poco professionali, farraginose, slegate dal mondo reale della produzione, della formazione, dello sviluppo, non in grado di gestire l’enorme afflusso di contributi dei fondi. C’è di contro un mondo intero di enti ed imprese che utilizzano tali fondi che ci guadagna, perché legato alle politiche del consenso.
Una prima riforma che potrebbe promuovere il nostro governo dovrebbe essere la rinuncia a una parte dei contributi per i fondi europei chiedendo in cambio una corrispondente riduzione della quota contributiva da versare per il bilancio dell’Unione. E dato che i fondi prevedono il cofinanziamento obbligatorio per pari importo da parte del paese beneficiario, il risparmio raddoppierebbe. Non cambierebbe sostanzialmente il nostro apporto alla Ue, ma risparmieremmo alcuni miliardi di euro. Sarebbe una operazione contabile che potrebbe avere la consistenza di una manovra finanziaria.
Il nuovo piano comunitario di investimenti 2014-2020 prevede affidamenti della Ue al nostro paese per quanto riguarda i fondi strutturali pari a 41.548 milioni di euro, di cui 4.195 milioni di euro per la formazione. Non sono al momento disponibili i dati ufficiali sul nostro contributo, ma da quelli ufficiosi si rileva che continueremo ad essere uno dei maggiori paesi contribuenti con un bilancio nel dare avere a tutto nostro svantaggio. Se riducessimo del 50% sia i nostri affidamenti sia il nostro contributo risparmieremmo circa 40 miliardi di euro: 20 miliardi di contributo/affidamenti e 20 di cofinanziamento. Si tratterebbe di una cifra che allevierebbe il nostro bilancio, una manovra finanziaria che potrebbe favorire una diminuzione delle leva fiscale sul patrimonio immobiliare complessivo su cui grava un carico che nel 2014 raggiungerà i 52,3 miliardi di euro.
Considerate le difficoltà ed i tempi necessari a rivedere la situazione, si potrebbe intanto realizzare una struttura temporanea alle dirette dipendenze della Presidenza del Consiglio cui affidare la gestione di una quota minoritaria del nuovo affidamento per i fondi europei, sia per realizzare azioni utili e di livello, sia per sperimentare formule esemplari di gestione. Spendere bene almeno una parte di quelle risorse creando una struttura piccola ma trasparente sarebbe finalmente un rovesciamento dei significati: si tratterebbe di una battaglia tra due culture del paese.
Invece la riduzione dei nostri contributi (e affidamenti) alla Ue sarebbe una battaglia politica interna agli equilibri ed alle strategie comunitarie: potremmo mantenere alto il livello di partecipazione allo sviluppo comunitario evitando, vista la drammaticità della crisi, di finanziare prevalentemente lo sviluppo altrui. E sarebbe opportuno farlo prima che l’agenda la dettino Nigel Farage e Marine Le Pen.
Non basta il cambio di passo, bisognerebbe invece correre, e in altra direzione. Il problema insormontabile è che, da sempre e con perseveranza, eleggiamo politici attivissimi a parole e “paralitici” nei fatti, ovviamente sempre a loro vantaggio.
Un articolo chiarissimo e meritevole di attenzione.
La soluzione proposta non è praticabile, perché andrebbe a scardinare tutto l’impianto del bilancio comunitario. Non dico che non si possa fare, ma ci vorrebbe un nuovo Trattato e Dio solo sa quanti anni occorrerebbero per portarlo in porto.
Aggiungo che da europeista convinto, pur non condividendo certe procedure e certe rigidità della burocrazia comunitaria, che, però, è bene dirlo, è solo il braccio esecutivo dei Governi UE, non considero auspicabile la soluzione proposta, perché marcherebbe un ulteriore arretramento della strategia d’integrazione tra i Paesi europei.
La soluzione più a portata di mano è neutralizzare i cofinanziamenti rispetto al calcolo dell’ndebiatamento nazionale e alle procedure di riequilibrio dei bilanci dei singoli Paesi.
Per un cambiamento del genere non occorre un Trattato, ma una corretta interpretazione degli stessi.
Per l’Italia c’è, però una priorità assoluta: rivedere il sistema di utilizzo dei Fondi, chiudendo il capitolo dei finanziamenti a pioggia per la parte degli interventi strutturali e ribaltando del tutto le modalità di utlizzo delle risorse riservate alla formazione e a interventi sociali.
Come farlo? sottraendo alle Regioni competenze che hanno dimostrato di non saper gestire.
La centralizzazione fa paura, perché ben sappiamo il livello di inefficienza del nostro Stato. Fatto sta che, forse, con un solo interlocutore (lo Stato) è possibile immaginare un percorso negoziale virtuoso, mentre, se occorre misurarsi con 20 regioni, ogni speranza di reggiungere un risultato credibile è del tutto campata in aria.