Chi si fa attore di un radicale programma di riforme, in particolare in un paese refrattario ad ogni cambiamento, dovrebbe mettere in conto che, portata a termine la sua opera, dovrà necessariamente ritirarsi a vita privata, o svolgere un mestiere altro dalla politica: riformare su larga scala ed essere odiati dai poteri aggrediti, dai loro chierici, vanno di conserva.
Basti ricordare la parabola tragica di Cavour, l’artefice della nostra unità nazionale. Morì a soli 50 anni, di crepacuore per fatiche e solitudine; il re Vittorio vietò al principe ereditario di intervenire al funerale, con il pretesto degli obblighi di studio (l’impegno negli studi dei Savoia è notorio); Garibaldi non partecipò perché ancora offeso per la cessione della sua Nizza (poco importava che l’azione politica-diplomatica-militare di Cavour aveva compensato quella perdita con Milano, Firenze, Bologna etc.); Civiltà Cattolica ravvisò in quella morte una vendetta celeste; Mazzini la valutò politicamente vantaggiosa.
Riformare consuma. Essere consapevoli che poi ci si ritirerà dalla politica sarebbe una assunzione di saggezza e rafforzerebbe l’azione riformatrice. Sarebbe soprattutto un cambiamento radicale della politica italiana, dove le carriere non finiscono mai proprio perché gli attori si premurano di non dispiacere a nessuno. Mentre oggi avremmo bisogno di un profondo cambiamento culturale della classe politica, che invece di fare da collante tra i gruppi consolidati del potere dovrebbe assumersi l’onere di riforme definite nei modi e nei tempi, sapendo di dover pagare un prezzo alto sul piano personale.
Come sempre, Piero, senza mezzi termini. Renzi non è Cavour e la sua lungimiranza non si avvicina neanche a quella del piemontese che ha fatto – usando la Diplomazia (scienza e non “maneggio”) – la storia dell’Italia moderna con pochi altri compartecipi. Ciò detto, cogli pienamente nel segno: ci provò con più coraggio Prodi e vedi che fine ha fatto…(e, come sai dai recenti trascorsi insieme, io non sono una fan dell’orientamento di Prodi, ma rispetto chi ci prova, a scardinare gli italici campanili, che ormai sono rappresentati dai cortili di casa e dei gruppi di potere). Sono abbastanza scettica sull’esistenza di un sostenitore di un radicale programma di riforme che abbia le caratteristiche che indichi, perché presupporrebbe l’esistenza di una cultura politica che non vedo nei gruppi “dirigenti”, non solo in termini di valori e di dinamiche per il consenso, ma anche nella capacità di rispettare l’altro da sé per quello che è e non per le “pelose” opportunità di ricavarne alleanze e nella convinzione di “lavorare per il proprio Paese senza avere di mira sé stessi.
Un abbraccio!
Gloria
meglio ancora, bisognerebbe rendere non professionale l’attività politica. Nessuna o minima ricandidabilità e compensi correlati alla riduzione dei redditi rispetto al periodo precedente alla carica. Rivoltare come un calzino il concetto di divieto di mandato imperativo: indipendenza dal proprio partito ma totale asservimento agli elettori del proprio collegio, fino al recall.
La ricerca del consenso è la malattia della nostra democrazia, perché si rivolge solo alla tutela di privilegi e immunità piccoli o grandi, ma spesso solidali tra loro. Questa ricerca del consenso sommata al professionalismo nella politica sono la morte della democrazia
La democrazia senza consenso è un discreto ossimoro. Il consenso può anche essere espresso per adesione ad un disegno politico, non solo in una logica di scambio. Perciò non esiste una democrazia senza partiti, mentre l’istituto del recall sta alla logica di scambio come il cacio sui maccheroni. Cavour era un professionista della politica, come tanti altri. Alcuni dei quali – da ultimo Moro – per esercitare la professione ci hanno lasciato anche la pelle.