Che cosa pensiamo delle iniziative di Zagrebelsky e Rodotà lo avevamo già scritto ad ottobre dell’anno scorso (vedi Articolo 138, comma 22). E che cosa pensiamo di una riforma del Senato ispirata alla spending review lo abbiamo scritto il 19 marzo, presentando un disegno di legge proposto dal senatore Buemi (vedi Un altro Senato è possibile).
Ciò non toglie che la canea scatenata contro il disegno di legge costituzionale proposto dal governo merita qualche riflessione in più. Compresa, magari, quella sull’inusualità della procedura adottata. Di solito non sono i governi (potere costituito per eccellenza) ad appropriarsi del potere costituente. Ma – dopo tre bicamerali, due referendum e svariate commissioni di “saggi” – non c’è bisogno di essere Carl Schmitt per individuare uno stato d’eccezione nella impotentia reformandi di cui in trent’anni ha dato prova il nostro Parlamento. E Renzi sembra avere bene appreso la lezione schmittiana quando ha legato il suo esercizio di sovranità alla stessa sopravvivenza di una legislatura che per la Corte costituzionale non è delegittimata, ma che certamente è stata eletta in quei borghi putridi che la nuova legge elettorale si propone di bonificare.
Non saremo noi, quindi, a negare legittimità al realismo politico che ispira l’azione del presidente del Consiglio, o addirittura ad accodarci alle vestali della “Costituzione più bella del mondo”. Del resto è sulla nostra rivista che, nella seconda metà degli anni ’70, cominciò a sinistra la discussione sulle riforme istituzionali e sulla necessità di rafforzare gli esecutivi rispetto alle assemblee. Ed è anche colpa nostra – della nostra sconfitta – se oggi si procede con una disinvoltura impensabile trent’anni fa.
Ora come allora, peraltro, le resistenze sono autorevoli e argomentate, anche se il conservatorismo costituzionale cambia spesso di spalla al suo fucile: a favore del monocameralismo quando si dovevano contrastare tendenze presidenzialiste, a favore del bicameralismo paritario ora che c’è da sbarrare il passo a Renzi. A dare coerenza ai protagonisti della resistenza (sempre gli stessi) c’è tuttavia una cifra unitaria, quella del “benaltrismo”: ben altro è necessario per garantire la governabilità, ben altro per mantenere l’equilibrio dei poteri, ben altro per salvaguardare il principio della rappresentanza.
Da parte nostra, invece, al “ben altro” preferiamo il “non solo”, convinti come siamo che non di solo bicameralismo paritario si nutre la palude istituzionale in cui siamo immersi. Perciò ci permettiamo di sottoporre all’attenzione dei nostri lettori alcuni documenti (compreso il disegno di legge Rodotà del 1985) che mettono in luce ulteriori cause di ingovernabilità e di farraginosità del procedimento legislativo. Con l’augurio che la vis reformandi del governo Renzi non si applichi solo al Senato.
- Disegno di Legge costituzionale di iniziativa del Sen. Compagna (XVII Legislatura – 31/03/2014)
- Proposta di Legge costituzionale di iniziativa dei deputati Ferrara, Rodotà, Bassanini, Levi Baldini, Onorato, Columba, Giovannini, Balbo Ceccarelli, Barbato, Masina, Guerzoni, Codrignani (IX Legislatura – 16/01/1985)
- D. Argondizzo – G. Buonomo, Spigolature intorno all’attuale bicameralismo e proposte per quello futuro
- G. Buonomo, Le procedure di revisione
E’ sicuramente vero che il bicameralismo perfetto non è la sola causa dell’ingovernabilità. Aggiungo solo che il Senato è stato fin dalla Costituente un enorme problema. Allora, la scelta di combinare insieme rappresentanza professionale e rappresentanza territoriale, che era passata nel progetto licenziato dai 75, fu giustamente messa da parte dall’Assemblea per le enorrmi complicazioni che avrebbe comportato. Ma il risultato, dovendosi trovare un accordo con socialisti e comunisti favorevoli alla Camera unica per via di non nascoste suggestioni assembleariste, fu appunto il bicameralismo perfetto: un compromesso al ribasso, forse non l’unico ma sicuramente il più evidente della Seconda Parte. Poi, con la prima regionalizzazione, ci fu un d.d.l. cost. Olivi, Galloni e altri (1978), che già prospettava un Senato-Camera delle Regioni, e poi ancora i più noti tentativi falliti delle tre Commissioni per le riforme, la legge costituzionale del centrodestra del 2005 e la bozza Violante della XVI Legislatura. Come si possa con un passato del genere (Costituente compresa, attenzione!) parlare del progetto dell’attuale Governo come di un attentato alla Costituzione è un mistero. Che però si svela subito se si tiene presente il presupposto di questa ennesima alzata di scudi: l’equazione Renzi=Berlusconi, e il conseguente timore per uno che torni a dire “Chi vince le elezioni prende tutto”. Una risposta, devo dire dignitosa, l’ha data lo stesso interessato con parole che mai sarebbero uscite dalla bocca dell’altro signore: “Ho giurato sulla Costituzione, non su Rodotà o Zagrebelsky”.
Non sono del tutto d’accordo sul merito politico, ma il disegno di legge Compagna è condivisibile.
Rimodulare la rappresentanza e sottoporre al controllo della Corte Costituzionale i partiti mi sembra accettabile, ma io inciderei soprattutto sulla decretazione d’urgenza, che oggi copre il 70 % della produzione pseudo normativa, soprattutto in materia lavoro, con conversioni poi peggiori, rabberciate e che conservano il carattere transeunte di patti di compromesso. Solo le oligarchie, le dittature si avvalgono di questi strumenti e fare retorica tra socialisti mi pare superfluo. La battaglia di Rodotà è figlia della cultura istituzionale di Mortati e di Nenni e mi stupisco che si possa barattarla. Non è un problema solo di meccanismi, è un problema di selezione mancata del personale politico, dimostrazione l’avvento di uomini come Berlusconi e Renzi, che ricordano certi funamboli fine Ottocento, vedi trasformisti puri. La Stimo Covatta, ma guardi, meglio essere rigorosi e conservare la Repubblica, è l’unico antidoto allo sfacelo della socialdemocrazia, che in Francia alle amministrative ha pianto parecchio.
Le istanze di perequazione sociale sono determinate da perequazione democratica e partecipazione, per anagrafica, ho 44 anni, sono cresciuto in anni in cui quello slogan era prassi e vorrei vedere di nuovo un’Italia colta e liberale, non questa con le pezze al sedere.
Magari Craxi avrebbe riso ma si sarebbe opposto con tutta la sua autorevolezza, per la consonanza con Soares e l’ultima grande ed unica rivoluzione riformista, la portoghese, che personalmente considero la rivoluzione popolare e colta per eccellenza, di un popolo unito, cosciente contro la dittatura cattolica post-Salazar.
I fascismi, anche quelli attuali, nascono purtroppo da una classe media che cura l’orticello e nutre come poppanti i figli maggiorenni.
E francamente non vorrei più vedere bamboccioni in Parlamento, meglio un Rodotà, i suoi libri mi hanno dato strumenti di lavoro ed interpretazione.
se il Socialismo saprà rielaborare questa colta visione, certo avrà un cantiere immenso davanti, altrimenti diverrà una dolce archeologia.
Ma purtroppo momentaneamente hanno vinto i Centristi, per debolezza intrinseca della nostra compagine laica, che non riesce a parlare alle masse ed alla classe media, ormai ridotta al lumicino.
Purtroppo il mio conterraneo G. Mosca aveva visto giusto, le elite chiuse divengono catafalchi putridi.
Buon lavoro, compagno Covatta.
La ricostruzione del bicameralismo perfetto attuale (che io non giudico però “perfetto”, concordando pienamento in ciò con Egidio Tosato) come risultato finale di una serie di compromessi al ribasso cui si sarebbe addivenuti in Assemblea Costituente, ha una certa presenza in dottrina. Ma non coincide necessariamente con la verità storica. Soprattutto non è utile se si voglia ragionare di come rendere “sincera” la nostra forma di governo, solo all’apparenza – e sempre meno in questi ultimi decenni – parlamentare.
Parto dalla ultima (di una lunga serie) proposta “governativa” (e pongo l’attenzione su questo attributo). Secondo essa, la Camera “superstite” deve (deve!) approvare un testo del Governo entro tot giorni (altrimenti, c’è la fine del mondo). Questa è democrazia parlamentare? Questa è divisione dei Poteri? O meglio, altrimenti mi tagliano le mani i “costituzionalisti” (fermi alle loro belle e precise categorie delle forme di Stato e di governo…), questo è il senso (funzionale), la direzione (di marcia) del nesso fiduciario in una forma parlamentare o di gabinetto?
Io penso, e, con me, Tosato, Mortati, Perassi, Ruini, Vanoni, Matteotti, Turati, Treves, Modigliani (e sfido i “costituzionalisti” e gli “storici” a smentirmi), penso che il Governo in Italia abbia fatto quasi sempre il bello e cattivo tempo.
Ora, mi si potrà dire, è solo un problema di rapporti tra Organi costituzionali, dato che Essi sono riempiti dai partiti, sono i partiti politici a garantire la democraticità sostanziale (e non formale) del sistema. Mi si dirà, la prova è la Francia.
Rispondo: in Francia hanno tagliato la testa al Re nel ‘700, nel Regno Unito nel ‘600. In Italia i partiti godono di una condizione di anomia che da i risultati che tutti sappiamo, se vogliamo vedere le cose senza prenderci in giro. Certe forme costituzionali servono a far assumere ai partiti politici delle modalità di comportamento democratico nella conduzione della cosa pubblica che non hanno al loro interno (e che non si vogliono dare al loro interno). I poteri economici privati vogliono grandemente un unico Potere che legiferi, amministri e governi, così possono ottenere più facilmente tutele non in linea con una economia di mercato concorrenziale (semplicemente concorrenziale, quindi al di là dei profili penali…). Il democratico Parlamento, la trasparenza del Suo scrutinio non sono ben visti. Domando semplicemente, questo accentramento dei poteri nell’Esecutivo è il fine socialismo? E’ utile agli obiettivi che il socialismo si prefigge? E’ socialisticamente accettabile che il Governo faccia tutto, plebiscitariamente, demagogicamente, paternalisticamente? Che il Governo sia il confessore, il mediatore anche delle voglie inconfessabile dei poteri privati più disparati?
E vengo alla questione più ampia del complessivo sistema repubblicano, secondo anche l’ultima propostina dell’ennesimo governino (o governone?).
Non si toccano i 20 “parlamenti” regionali, la loro antistorica, irrazionale, ridicola, costosa legislazione regionale. Che questo tema urti i “costituzionalisti” non mi stupisce affatto. Essi parlano della opportunità di dare una giusta rappresentanza alle realtà territoriali (autodeterminazione dei popoli?), ed intanto hanno incassato la proliferazione di cattedre universitarie (con connessa produzione manualista, e con connessa coatta platea di acquirenti) per il solo e semplice fatto dell’esistenza delle regioni, e della loro legislazione. Ma a cosa serve una legge differenziata per fazzoletti di territorio che si percorrono in breve, non lo dicono. In tre ore di treno da Roma a Milano cambiano ben 5 legislazioni regionali. E’ solo ridicolo?
E’ costoso. E questo è il vero motivo. Chiudono il Senato perché tanto hanno già portato a casa 20 (più i consigli delle provincie autonome) parlamentini, con il loro finanziamento ai gruppi consiliari.
Il finanziamento della politica è allora l’altro convitato di pietra, che è stato, ed è presente, sempre, condizionando le scelte di politica istituzionale e le riforme costituzionali. C’è poi la questione della gerarchia della fonti…, una questioncella, che pure dovrebbe essere cara, almeno agli amministrativisti!
Queste cose sono frutto di un metodo di analisi socialista, che ho (forse) imparato da Turati e Matteotti, non certo dai cantori della necessità di un rafforzamento dell’esecutivo, della necessità di velocizzare la procedura legislativa. Me vedetele dentro queste leggi emanazione governativa? Sono al 99% amministrazione, provvedimenti.
Che il Governo faccia il suo mestiere senza scomodare la legge.
La stragrande maggioranza dei governi del nord europa sono di minoranza, il Presidente Federale USA non ha alcun potere di iniziativa legislativa (può solo bloccare, ma questo lo può pagare sull’approvazione del bilancio). Una chicca: nel paese federale per eccellenza la seconda Camera viene eletta dallo stesso corpo elettorale, e con la stessa formula elettorale della Camera bassa. Ed il Senato Usa ha poteri di indirizzo/controllo politico
che la Camera bassa non ha, condividendo perfettamente con essa la capacità legislativa.
Ed invece in Italia, in nome del federalismo, in nome del governo parlamentare, si vuole dare tutto il potere all’Esecutivo.
Bella riforma costituzionale compagni socialisti. Bravi!
Una modesta appendice al “tipo di revisione affidato all’ordinaria assemblea legislativa in due letture, inframezzate dallo scioglimento e dal rinnovo della relativa rappresentanza con elezioni generali”.
Esso risponde ad una metodologia di rapporti tra elezioni (scelte del personale politico) e contenuti programmatici che nel nostro Paese è vista con estremo sfavore: una commistione tradizionalmente vista con sospetto.
Lo dimostra il fatto che la legge sui referendum prevedesse (articolo 31 della legge 25 maggio 1970, n. 352) che “non può essere depositata richiesta di referendum nell’anno anteriore alla scadenza di una delle due Camere e nei sei mesi successivi alla data di convocazione dei comizi elettorali per l’elezione di una delle Camere medesime” e che (articolo 34, comma secondo della medesima legge) “nel caso di anticipato scioglimento delle Camere o di una di esse, il referendum già indetto si intende automaticamente sospeso all’atto della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto del Presidente della Repubblica di indizione dei comizi elettorali per la elezione delle nuove Camere o di una di esse”. È ben vero che questa “moratoria referendaria” si applicava al normale referendum abrogativo del titolo II (e non al referendum confermativo della revisione costituzionale del titolo I): ma in cosiddetta Prima Repubblica, era veramente inimmaginabile che si verificasse – come poi effettivamente avvenne, con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 1 – che una maggioranza inferiore ai due terzi in seconda lettura approvasse una revisione costituzionale e che si assoggettasse, in anno di scadenza naturale della legislatura, a referendum confermativo a pochi mesi dalle elezioni generali.
Una “moratoria referendaria”, quindi, che non a caso (per il gioco dell’articolo 34, comma terzo della legge n. 352: “I termini del procedimento per il referendum riprendono a decorrere a datare dal 365° giorno successivo alla data della elezione”) rinviò di ben due anni lo svolgimento del referendum sul divorzio: la Democrazia cristiana non fanfaniana vedeva con estremo scetticismo le one-issue-elections e, prevedendo di dover capitolare dinanzi alle gerarchie ecclesiastiche, preferì non a caso confinare il referendum sul divorzio in un midterm (1974) ben lontano dalla possibilità di “inquinare” le equidistanti elezioni generali.
Ovviamente, anche su quest’equilibrismo normativo doveva impattare il primo grande disegno dirompente degli equilibri consociativi della “Prima Repubblica”: lo fece Bettino Craxi, e lo fece a suo modo, alla corsara. La legge si impose, e la consultazione referendaria di radicali socialisti e liberali su responsabilità civile dei giudici e nucleare (nell’anno dopo Cernobyl!) fu fermata dallo scioglimento anticipato delle Camere del 1987. Ma la campagna elettorale fu impostata anche su quel registro e le nuove Camere – nel luglio – approvarono “sotto dettatura” una leggina che consentì lo svolgimento dei referendum l’8 e 9 novembre 1987 .
Tutto questo per dire che la legge non può imporre i braghettoni alla realtà: se – in ordine ad un issue – gli attori politici non si presentano uniti all’elettorato, depotenziandolo, anche un’elezione avente altro oggetto assume la “coloritura” imposta dalla forza politica “corsara”. L’effetto imposto dal PSI nel 1987 fu di avere un Parlamento che – “sotto dettatura” dell’esito elettorale – avviò il Paese all’uscita dal nucleare (anticipando addirittura lo svolgimento del referendum) e consentì a Vassalli di ottenere l’approvazione della prima legge speciale sulla responsabilità civile dei magistrati. Ma, all’inverso, cogliere l’occasione rappresentata da un’elezione politica generale per ottenere una sanzione pubblica su di un issue controverso è un altro modo (forse meno paludato) di convocare una mini-assemblea costituente.
La consapevolezza del futuro – e, forse, anche un po’ di necessario azzardo – dovrebbero quindi imporre alla strana maggioranza “costituente” di questa legislatura di non puntare sul referendum confermativo alla fine nel percorso, che richiama un’ottica plebiscitaria povera di valore aggiunto politico. Piuttosto, si dovrebbe operare secondo il “tipo di revisione affidato all’ordinaria assemblea legislativa in due letture, inframezzate dallo scioglimento e dal rinnovo della relativa rappresentanza con elezioni generali”. In altri termini, rendere coesa – con reciproche concessioni – la “maggioranza costituente” nel Parlamento uscente, e poi, conseguita così la prima lettura favorevole in ambedue le Camere, scioglierle. Il percorso sarebbe “rilegittimato” dalla riapprovazione del medesimo testo costituzionale dalla seconde Camere, e a quel punto – passato il necessario trimestre – auspicabilmente coi due terzi dei parlamentari.
Non è vero che invertendo l’ordine del fattori il prodotto non cambia: in politica, non si passa come le salamandre in mezzo alle fiamme elettorali. La competizione ne viene “colorata” e le nuove Camere – se la battaglia è vinta – operano “sotto dettatura” dell’opzione programmatica prescelta. Ciò vale a maggior ragione per un testo costituzionale controverso.
P.S.: ovviamente, non ha senso “simulare” un’intesa tra partiti a monte o a valle del processo, che è e resta tutto politico. Il testo va aperto agli apporti omogenei nel vecchio Parlamento e le elezioni devono avere la massima valenza rappresentativa. In altri termini, i risultati “costituenti” vengono falsati, se si vota con una legge elettorale vistosamente disrappresentativa. Ne deriverebbe la prosecuzione degli inani tentativi di revisione costituzionale senza mutamento della Costituzione materiale, nella quale dal 1994 ancora ci dibattiamo.
Caro direttore,
le tue considerazioni sono fondate ma vorrei risponderti con una metafora: nel recente film Lincoln viene ricordato che quel presidente chiese ad alcuni oppositori progressisti alla sua proposta di legge (emendamento alla Costituzione) sulla fine della schiavitù di rinunciare alle loro modifiche alla legge, chiedevano l’equiparazione dei diritti tra bianchi e neri, perché non sarebbero passate e avrebbero fatto venire meno i voti necessari alla riforma che lui proponeva e che comunque segnava un passo avanti significativo.
La richiesta di Lincoln fu accolta .
Sostenere subito le proposte renziane, a mio vedere, è meglio che perdere questa, forse ultima, occasione di riforma ed essere maggioranza nel Paese.
La politica, in fondo, è l’arte del possibile.
Con amicizia.
Piero Pagnotta
Parto dalle ultime parole di Ceccanti in un suo recente contributo su federalismi: la discussione mirata sulle modifiche può svolgersi con grande libertà e spregiudicatezza.
Accolgo con gioia questa opportunità. Sorvolo sul fatto che anche Egli, anche in questa ennesima occasione, abbia ricostruito una certa filosofia della Costituente, limitandosi alla coda dei suoi lavori e basandosi su fonti indirette, raccolte anche a molti decenni di distanza…
Passo decisamente alla spregiudicatezza. Perché non si ricordano i numerosi passi nei quali alcuni Costituenti di un certo rilievo, quali Tosato, Mortati, Perassi, Ruini, Vanoni, si pongono il problema, tratto dalla loro esperienza del periodo statutario liberale, di evitare le degenerazioni del parlamentarismo, correttamente intese quali le condizioni di una Assemblea parlamentare impotente e succube del Governo per ogni cosa?
Questi dati di fatto contrastano troppo quella certa filosofia della Costituente che da decenni viene propinata dalle cattedre universitarie e dai banchi del Governo?
Vogliono spregiudicatezza? Bene, dimentichiamo i nomi delle due Camere, tralasciamo i sistemi di composizione, e mettiamo il sistema bicamerale perfetto su di un tavolo, insieme ad altri sistemi per ottenere una correzione dell’impotenza parlamentare. Se non piace il sistema bicamerale perfetto escogitato da Mortati e Tosato guardando alla Norvegia (cioè l’attuale sistema con in più il nesso fiduciario nelle mani esclusivamente del Parlamento a Camere riunite), si possono considerare altre varianti:
1. Due camere paritarie nella legislazione, con una solo di esse che esprime l’indirizzo politico, magari anche con una durata prefissata dell’Esecutivo investito della fiducia;
2. Una sola Camera che fa la legislazione ed esprime l’indirizzo politico, ma con la durata prefissata dell’Esecutivo investito ed il divieto della questione di fiducia sulla sostanza dei testi legislativi in discussione, bensì con un ritorno a quella che era l’iniziale funzione della questione, cioè una votazione sulla procedura a cui il Governo attribuiva una prova del persistere della fiducia.
Se si sceglie il primo sistema, si può dare concretezza alla “base regionale” di cui al 57 Cost., cioè si può (costituzionalizzando il proporzionale su circoscrizioni regionali per la Camera alta ed un sistema elettorale ad effetti di governabilità per la Camera bassa) assegnando un certo numero fisso di senatori per ogni circoscrizione regionale (emulando così il Senato Usa).
Con entrambi i sistemi si ottiene l’effetto di rendere anche questo distanziato paese più normale sotto il profilo della divisione dei poteri, della gerarchia delle fonti, dell’assunzione di responsabilità da parte delle amministrazioni, del controllo politico parlamentare delle decisioni governative, dello scrutinio sinceramente parlamentare nella produzione legislativa.
Se non si persegue tutto ciò andrebbe detto chiaramente e andrebbero motivate altre preferenze.
Se si vuole semplicemente portare all’elettore lo scalpo del Senato, andrebbe detto.
Andrebbe detto se si sacrifica demagogicamente il Senato, perché tanto si sono già portati a casa 22 parlamenti regionali – provinciali autonomi, che costano -in media- molto di più del Senato, anche se molto meno della Camera (sottolineo in media, perché alcuni consigli regionali hanno costi ben maggiori della Camera, che comunque costa più del doppio del Senato); 22 parlamenti con una loro legislazione esclusiva e piena per fazzoletti di territorio che si percorrono in auto anche in una sola ora.
Andrebbe detto che con l’alibi dell’Europa si è moltiplicata la sede della legislazione nazionale al solo scopo di moltiplicare il finanziamento dei gruppi consiliari, quindi dei partiti. Un finanziamento occulto, quindi smodato. Questa la ragione per cui si fa strame della democrazia parlamentare, non viene mai messa in discussione la ontologica insensatezza della legislazione regionale, viene finalmente sancito che il Governo è bene che ponga su ogni disegno di legge il suo sigillo.
Che la Pasqua porti un po’ di sincerità tra le cattedre universitarie, porti un po’ di senso della misura nei ministri, e soprattutto dia a tutti i parlamentari (della Camera alta e di quella bassa) quella saggezza e quel distacco (prosaicamente non pensino solo a non inimicarsi i vertici dei loro rispettivi partiti) precipuo dei membri di una Assemblea Costituente.
Buona Pasqua
Non sono in grado di sostenere una discussione giuridico istituzionale, ma come semplice uomo della strada faccio notare che in questi venti anni i cittadini sono diventati gente, che le leggi elettorali emanate dalle Regioni e dal Parlamento sono state costruite in modo che la minoranza prevalesse sulla maggioranza, che la legge elettorale attualmente in discussione al Parlamento è peggio del porcellum e della legge Acerbo di fascistica memoria, che si vuole ridurre il numero dei parlamentari con la scusa dei “risparmi” allora da buon ignorante vedendo tutto questo arrivo alla conclusione di lasciare tutto com’era anzi vorrei eliminare le modifiche del titolo V fatte con un colpo di mano dagli (ex)-comunisti e vorrei che i sindaci si occupassero di aggiustare le strade anziché sfasciare la Repubblica.