Anticipiamo l’editoriale del direttore Cesare Pinelli pubblicato sul numero di febbraio di Mondoperaio in questi giorni in distribuzione.

Molti hanno scritto che è stato raggiunto il migliore risultato nel peggiore dei modi. Enrico Cisnetto, poi, ha ricordato di averlo previsto da ottobre scorso. Però sarebbe sbagliato ridurre la rielezione di Mattarella al Quirinale a una scelta disperata di un sistema politico incapace di produrre altre soluzioni. Né si è trattato di una semplice replica della rielezione di Giorgio Napolitano, a parte la diversa attitudine dei due Presidenti.

Nel 2013 Napolitano fu rieletto dopo ripetuti tentativi falliti di eleggere altri, dovuti a divisioni interne ai partiti non meno che fra partiti. Allora, i franchi tiratori manifestarono il massimo della loro forza distruttiva, e sono tuttora ignoti i 101 parlamentari del Partito democratico che affossarono la candidatura di Romano Prodi.

Nel 2022 Mattarella è stato rieletto non per i fallimenti di altri candidati, ma per la progressiva crescita di una centinaia di voti a suo favore da una votazione all’altra (essendo richiesti 505 voti per essere eletti). È stato su questo dato che hanno fatto leva prima Enrico Letta e poi gli altri segretari per superare lo stallo che già aveva spaccato tutti e due gli schieramenti, promettendo sconquassi ancora maggiori alle votazioni successive. Vi è stato quindi un preciso progetto in positivo di una frazione parlamentare.

Non si era mai visto un Parlamento così sciolto dai vincoli di gruppo, e che nello stesso tempo agisse in senso costruttivo anziché distruttivo. Da cui la lettura opposta che se ne è data, dal tracollo del sistema democratico alla riscossa del Parlamento. Ma né l’una né l’altra ci convincono.

Bisogna dire, prima di tutto, che sia i singoli parlamentari che i capigruppo e i leader di partito erano molto impauriti da questa elezione, ma per ragioni diverse. I parlamentari per il timore che ad essa seguisse lo scioglimento delle camere, con vari svantaggi personali. I leader, per il rischio di ritrovarsi gruppi divisi a metà al momento del voto. È stato sicuramente il timore dello scioglimento a suggerire ai primi la soluzione che garantisse il massimo di stabilità, oltre all’intenzione della corrente di Di Maio di contarsi nel Movimento 5 Stelle. Dall’altra parte i leader dei partiti, soprattutto quanti si erano messi in prima fila (Salvini e Conte), avevano il solo obiettivo di non portare Draghi al Quirinale, e per il resto cercavano candidati alla carica senza aver preparato minimamente il terreno per un’intesa, come era sempre avvenuto fino alla prima elezione di Mattarella. Ecco perché in certi momenti Montecitorio ha dato l’impressione di un alveare impazzito, anche se rimane comunque ipocrita l’atteggiamento di chi ha guardato alla scena fingendo di ignorare come sono andate le cose in questa legislatura.

La riscossa del Parlamento contro i partiti brutti, sporchi e cattivi si riduce a una favoletta edificante. Ma si può per questo parlare di un tracollo del sistema democratico? Se guardiamo al risultato, il segnale fornito dalla rielezione di Mattarella è stato fortissimo, tanto più se letto, come si deve fare, in combinazione con la conferma di fatto di Draghi al Governo. Perché la stabilità aveva ed ha una doppia faccia: rassicura certo chi non voleva interrompere il mandato parlamentare, ma rafforza pure all’interno e all’estero l’immagine di un Paese che esprime in quelle due istituzioni di vertice le persone rispettivamente più adatte a ricoprirne la carica.

Suprema ambiguità italiana, dirà qualcuno. E avrebbe ragione, ma con l’avvertenza che l’ambiguità non potrà durare. Ricucire gli strappi di partiti, la cui sola dimostrazione di esistenza è data dal conflitto fine a sé stesso, sarà sempre più faticoso, soprattutto in un anno che precede le elezioni. Se tutta la vicenda della rielezione presidenziale avesse come esito politico un esausto irrigidimento in due poli, rotoleremmo verso le elezioni con un rinvio di qualsiasi chiarimento. Diversamente potrebbe avvenire se la rielezione presidenziale avesse come conseguenza la nascita di un centro europeista a vocazione governativa, capace di dialogare con la componente riformista della sinistra. Al momento questo dilemma, che passa anche per la riforma elettorale, è in piedi. Ma dovrà sciogliersi prima dell’estate.