«La società della sorveglianza digitale, che ha accesso all’inconscio-collettivo, al futuro comportamento sociale delle masse, sviluppa tratti totalitari: ci consegna alla programmazione psicopolitica e al controllo. Finisce, in tal modo, l’era della biopolitica. Entriamo oggi nell’era della psicopolitica digitale»1, si chiude con questo passo il saggio “Nello sciame. Visioni del digitale”, opera del filosofo coreano, naturalizzato tedesco, Byung-Chul Han. Un addio, dunque, alla società disciplinare foucaultiana2 e al Novecento – o meglio, alla medialità specifica del Novecento – reso necessario dall’esigenza di riconoscere e denunciare le criticità strutturali della nuova società digitale.

Fra i filosofi contemporanei, Byung-Chul Han è probabilmente colui che è riuscito a descrivere con più efficacia l’impatto prodotto dell’avvento dei media digitali sui processi di formazione della volontà individuale e collettiva, sul rapporto tra individuo e Società e tra Potere e autodeterminazione del singolo.

La filosofia di Han sembra muovere innanzitutto da una critica estetica. Questa critica trova il suo oggetto nella cosiddetta “società della trasparenza”, una società nella quale l’esigenza (soddisfatta) di immediatezza delle comunicazioni produce un annichilimento della relazione fra mittente e destinatario, ciò per via della perdita di zone d’ombra in cui il messaggio stesso potrebbe acquisire o perdere significati: «[o]gni distanza appare alla società della trasparenza una negatività da eliminare. Essa rappresenta un ostacolo all’accelerazione dei circuiti della comunicazione e del capitale. Muovendo dalla sua logica interna, la società della trasparenza elimina ogni forma di distanza. In fondo, la trasparenza è la “promiscuità totale dello sguardo con ciò che vede”, vale a dire la “prostituzione”»3.

La società contemporanea è dunque una società trasparente e tale trasparenza è qualificata da un portato assiologico che l’Autore ritiene, almeno così appare a chi scrive, del tutto negativo. Infatti, con l’attributo di trasparente non si intende identificare una società aperta ai meccanismi di critica e responsabilità interindividuale, bensì una società nella quale l’avvento degli strumenti digitali di riproduzione e trasmissione dei contenuti ha cancellato ogni possibilità di comunicazione sincera. Non a caso Han – riprendendo le considerazioni di Roland Barthes sulla fotografia analogica4 – afferma che «[l]a fotografia digitale coincide con una forma di vita totalmente diversa, che si svincola sempre di più dalla negatività. È una fotografia trasparente, priva di destino e di eventi […] Alla fotografia trasparente manca la concentrazione semantica e temporale. In questo modo, non parla»5.

Tale dimensione della trasparenza, tuttavia, non limita i propri effetti alla sola sfera estetica e comunicativa. La società della trasparenza produce infatti un impatto politico da individuarsi in primis nella variazione del fondamento della responsabilità politica, il quale passa dall’attività svolta dal soggetto che esercita un potere politico al soggetto stesso, alla dimensione intima della sua persona giacché «i politici non vengono giudicati in base alle loro azioni, ma l’interesse generale è indirizzato verso la persona, e ciò produce in essa una costrizione alla messa in scena»6.

Questa modificazione, in ogni caso, non è per Han la forma deteriore di espressione della trasparenza, che è invece rintracciabile nel superamento dell’asimmetria del flusso informativo tipica degli strumenti comunicativi novecenteschi (giornali, radio e tv) con l’approdo ad un nuovo dispositivo di controllo esercitato dal Potere, e cioè quel controllo che «non si esercita solo dall’alto verso il basso, ma anche dal basso verso l’altro. Ciascuno espone ogni altro alla visibilità e al controllo, addirittura fin dentro la sfera privata. Questa sorveglianza totale degrada la “società trasparente”, a una disumana società del controllo. Ognuno controlla l’altro»7. È questa, in breve la psicopolitica digitale8.

Tutto ciò premesso, e tenute per un attimo da parte alcune considerazioni più di merito sull’opera di Han, occorre anzitutto rilevare che una delle qualità da riconoscere è senz’altro la capacità del filosofo sudcoreano di offrire immagini suggestive ed efficaci dei cambiamenti radicali causati dai nuovi strumenti di comunicazione, a partire dal superamento della teoria delle folle di Gustave Le Bon per poter descrivere l’attuale dimensione pubblica con la rappresentazione dello sciame digitale: «uno schieramento formato da molti assedia il rapporto di potere e di dominio esistente: la nuova folla si chiama sciame digitale e ha caratteristiche che la differenziano radicalmente […] dalla folla. Lo sciame digitale non è una folla, poiché è non possiede un’anima, uno spirito. L’anima raduna e unisce: lo sciame digitale è composto da individui isolati. La folla è strutturata in modo totalmente diverso: ha caratteristiche che non vanno attribuite ai singoli»9.

Ora, l’opera di Han è costellata da tali rappresentazioni che certamente hanno reso la sua opera quasi epifanica rispetto ai nuovi meccanismi della comunicazione e della vita digitale. Tuttavia, proprio tale approccio stilistico potrebbe provocare al lettore l’impressione di trovarsi dinnanzi ad una applicazione in ambito filosofico del motto fatto proprio da molta della letteratura statunitense: show, dont’ tell. Infatti, l’Autore indugia spesso su immagini e rappresentazioni le quali, pur rivelandosi certamente evocative e suggestive, sfuggono alla dimensione discorsiva e rischiano di cadere nell’apodittico. Con le parole di Popper, l’impressione è quella di assistere ad una manifestazione della filosofia oracolare di hegeliana memoria10: il filosofo è illuminato e illumina chi legge; e questa illuminazione, tuttavia, sfugge all’argomentazione e alla verificabilità11.

Proprio questa tendenza stilistica che potremmo definire quasi cinematografica – elemento incontestabile del gran successo dell’opera di Han presso i lettori non specializzati – potrebbe rivelarsi uno dei suoi più importanti limiti nel momento in cui il lettore dovesse interrogarsi con serietà sui corollari di quanto ha appena appreso.

Infatti, la lezione di Han resta utile per chi voglia prendere coscienza di una certa dimensione della sfera pubblica – oggi dominata dai media digitali – e dei processi di modifica della formazione della volontà sociale soltanto se depurata dai suoi elementi fideistici e deterministici, e sgombrato quindi il campo da una laconica rassegnazione. D’altro canto, se la società digitale è irrimediabilmente compromessa, se la tecnologia ha distrutto quel che di buono poteva sorgere dal dibattito pubblico, se infine il Potere ha raggiunto addirittura la disponibilità di dispositivi di controllo autodisciplinari (la psicopolitica); se il lettore ha dunque piena fede nel racconto dell’Autore, cosa resta a chi volesse tentare di sopravvivere nella contemporaneità? Avendo a mente gli insegnamenti di Han, sembra proprio che gli strumenti di lotta siano definitivamente esauriti, e l’unico sollievo sia da rinvenirsi nel ricordo dell’era pre-digitale, in quel filone di critica dell’evoluzione tecnologica per come rinvenibile in Heidegger12.

E tuttavia, da ultimo, nella prospettiva di chi crede nelle capacità dell’Uomo di salvarsi da se stesso, e di coloro che conservano fiducia nelle potenzialità della Politica, tale conclusione appare necessariamente non condivisibile.

1 B.-C. Han, Nello sciame. Visioni del digitale, nottetempo, 2015, pp. 97-98.

2 Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corsi al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, 2012; Id., Sorvegliare e punire: nascita della prigione, Einaudi, 2014.

3 B.-C. Han, La società della trasparenza, nottetempo, 2014, pp. 28 e 29.

4 R. Barthes, La camera chiara, Einaudi, 2003.

5 B.-C. Han. La società della trasparenza, op. cit., pp. 24 e 25.

6 B.-C. Han. La società della trasparenza, op. cit., p. 61.

7 B.-C. Han. La società della trasparenza, op. cit., p. 79.

8 A partire dalle conclusioni de “La società della trasparenza”, Han svilupperà il concetto di psicopolitica in Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove tecniche del potere, nottetempo, 2016.

9 B.-C. Han, Nello sciame. Visioni del digitale, nottetempo, 2015, p. 22.

10 Così K. R. Popper sull’uso del linguaggio in Hegel ne La società aperta e i suoi nemici. Hegel e Marx falsi profeti. Vol. II, Armando, 1981, p. 19: «[m]a esso [il problema delle definizioni e del significato dei termini, ndr] è stato una inestinguibile fonte di confusione e causa di quel particolare genere di verbosità che […] ha generato quella velenosa malattia intellettuale del nostro tempo che chiamo la filosofia oracolare».

11 Sul punto si cita di seguito un passaggio tratto da La società della trasparenza, op. cit., pag. 27: «[i] modelli odierni non trasmettono alcun valore interiore, bensì misure esteriori alle quali si cerca di corrispondere, anche impiegando mezzi violenti». Dove sono esposti e quali sono i fatti dai quali si deduce l’assenza di valori interiori? Chi è il soggetto che aspira alla corrispondenza? Chi quello che adopera la violenza?

12 Così M. Heidegger in Parmenide, Adelphi, 1999, p. 62, come citato da B.-C. Han in Nello sciame, op. cit., pag.53: «[l]a macchina per scrivere occulta l’essenza dello scrivere e della scrittura. Essa sottrae all’uomo la dignità essenziale della mano, senza che egli faccia convenientemente esperienza di tale sottrazione […]».