Provare a guardare alle situazioni con il cannocchiale rovesciato, quasi a vedere da lontano ciò che in realtà è vicino, può essere un buon esercizio.

La regione del Donbass prende il nome dal fiume Donec, affluente del Don, che, a sua volta, sfocia nel Mar d’Azov (quindi a est della Crimea). Il fiume Dnepr, poi, sfocia nel Mar Nero, a ovest della Crimea. E l’antico nome del Dnepr era Boristene. Boristene era anche il nome di un’antica colonia greca situata nei pressi della foce. Una terra di confine, e di frontiera, attraversata da popolazioni differenti: luogo di incontro, dunque, e, insieme, di conflitto.

A Giulio Lucchetta, professore emerito di Storia della Filosofia antica, devo gli spunti e le suggestioni che sto per proporre.

Dione di Prusa, retore e filosofo della cosiddetta Seconda sofistica, all’inizio del II secolo d.C., fa a Prusa, la sua città, una sorta di resoconto di una precedente conferenza da lui tenuta proprio a Boristene. É il tema dell’Orazione XXXVI.

In quella città si era instaurato da tempo un equilibrio prezioso e quanto mai precario e instabile tra il mondo greco, la popolazione degli Sciti e quella dei Geti. Questi ultimi avevano di fatto il controllo militare dell’area, anche perché Boristene e le altre città di origine greca erano divise e stentavano a coalizzarsi. Essi, però, e ancor di più gli Sciti erano consapevoli dell’esigenza di scambiare merci con il mondo ellenico. E i Boristeniti, che (più o meno) ancora parlavano greco, erano i referenti naturali dei mercanti e degli uomini d’affare greci.

Dione racconta ai suoi concittadini di Prusa del carattere anomalo di quella conferenza. L’argomento prescelto era il poeta Focilide, che ben si prestava a illustrare i tratti del cosmopolitismo stoico del tempo: un cosmopolitismo espressione del dominio imperiale romano e della conseguente tendenza all’omologazione. Ma Boristene era ai margini dell’Impero, sulla linea di un confine incerto, e la presenza romana era assai debole. Pesava molto di più quella dei “barbari”, e il “parlare greco” conservava la sua importanza (da qui, per i Boristeniti, il mito delle origini, di Omero, di Achille e del periodo arcaico, pur nella vistosa contaminazione con altre genti). L’oratore, dunque, e il suo uditorio appartengono a due mondi diversi e lontani. Eppure gli ascoltatori interagiscono con lui, lo interrompono, gli pongono quesiti. E tutti sono costretti più volte a spostarsi, a motivo di un’incursione scita in atto. Dione, tuttavia, è sempre più in difficoltà: l’universo materiale e simbolico degli “indigeni” è troppo distante dal suo. Prova a trasporre i propri argomenti nelle forme e tramite riferimenti comprensibili ai Boristeniti, ma alla fine si rende conto che la sapienza orientale dei sacerdoti di Zaratustra è altra rispetto alla sua dialettica, e tace. L’orazione s’interrompe.

Un fallimento, o piuttosto la matura acquisizione di una nuova consapevolezza?

Un evento, questo, lontano dai venti di guerra di oggi, e che pure ci chiama a riflettere e, magari, ad assumere nuovi schemi e una diversa prospettiva.