Sono passati cinque anni da quando, il 5 febbraio 2012, ci ha lasciati Luciano Cafagna. Oggi ne sentiamo ancora più la mancanza, perché ancora una volta incombe su di noi una grande slavina, e perché stiamo assistendo ad una strana disfatta dei riformisti ed al rigurgito nostalgico di chi non vuole ammettere che il Pci c’era una volta, ma ora non c’è più. Mai come ora, quindi, per orientarci in questa crisi di sistema avremmo bisogno del suo acume (e del suo disincanto). Possiamo comunque fare tesoro del suo lascito per proseguire in un’impresa che nove anni fa senza di lui non sarebbe neanche cominciata, ed invitare i nostri lettori a fare altrettanto consultando il quaderno in cui abbiamo raccolto i suoi ultimi scritti: sarebbe il ricordo più adeguato.

di Giuliano Amato

“Sì, sono passati esattamente cinque anni. Cinque anni nei quali la sua mancanza ha impoverito enormemente la vita di quanti, a partire da me, erano abituati a contare su di lui per capire la realtà che ci circonda e per correggere magari il nostro primo giudizio. Mi è capitato tante volte con lui e tante volte mi ha sottratto alla passione estemporanea, alla caduta nello stereotipo, alla spiegazione tanto ovvia quanto infondata. Del resto era anche e in primo luogo il Luciano storico a leggere il passato in una chiave lontana da questi rischi. Il suo  apprezzamento per il Cavour del connubio e per il trasformismo resta esemplare nella sua sgradita e non scontata validità. E’ ovvio dire che ci manca? Si, è ovvio, ma è verissimo. Pensiamo all’Italia di oggi, un’Italia talmente  frenata e resa inquieta dalla mancanza di rassicuranti prospettive future da  fare della loro discussione e messa a fuoco il compito prioritario e impellente della politica. Ma di che cosa si occupano la politica e chi le sta intorno? Della legge elettorale, cercando nei suoi marchingegni il surrogato del consenso che non ha.   Senza Luciano, nessuno  legge la riforma elettorale come lui fece rievocando il tempo de “La grande slavina”: una “scardinante  illusione di panacea che ha aiutato tanti intellettuali ha infilarsi gioiosi nella slavina che stava rotolando a valle, riuscendo miracolosamente a guazzarci come bambini che continuano a fabbricare pupazzi di neve”. Rileggerlo ora ci può far  pensare che Luciano sia ancora con noi. E che ci mostri  i nostri pupazzi di neve davanti alla nuova slavina”.

di Paolo Pombeni

Il rimpianto per non poter più godere della presenza di Luciano Cafagna è grande. La sua intelligenza pungente, ma mai cinica sarebbe preziosa in questo momento di grande sbandamento della sinistra (italiana e non solo). Il riformismo, che è stato il suo orizzonte, è sempre più in crisi, perché, come lui aveva intuito, non riesce a proporsi come un momento di coraggio e di sintesi: per cui oscilla fra un volontarismo del fare per il fare piuttosto sterile (e molto confuso), e una altrettanto sterile nostalgia per un ideologismo che non ha più contenuti (lo stucchevole dibattito che si interroga se siamo o no ancora di sinistra).
Bisogna forse riconoscere che la grande slavina che ha travolto il comunismo si è portata via con esso un pezzo dell’identità storica della politica del Novecento. Perché il comunismo era una utopia ingannevole che presumeva di interpretare la direzione della storia, ma coloro che non la condividevano ne fruivano però come di un bersaglio polemico che li aiutava a capire che la storia non andava in quella direzione, ma di conseguenza andava in altre.
Oggi nessuno si azzarda veramente più a ragionare su dove stiamo andando. Al massimo pensiamo a come possiamo stare meglio rimanendo rigidamente fermi (o magari arretrando un po’nel passato). Eppure la sinistra è figlia dell’idea di progresso, che non vuol dire necessariamente implementare in meglio quello che abbiamo, ma piuttosto accettare che non si può pensare al domani come ad un ieri migliorato, perché le cose evolvono e noi siamo solo parzialmente, molto parzialmente, in grado di dominare quella evoluzione.
Si dice che Bismarck avesse come motto: unda fert nec regitur, l’onda ti porta, ma non la puoi governare. Credo che Luciano Cafagna si sarebbe ritrovato in questa immagine. L’onda è una forza dinamica, e quel dinamismo può essere sfruttato opportunamente: a patto però che non ci si illuda di farlo andare verso le mete che scegliamo noi.
Il riformismo oggi deve ritrovare quella saggezza. Il mondo sta cambiando, è interessato da una transizione storica di grande portata che è già difficile decifrare. Non ha alcun senso pensare che possiamo sottrarci a questo dinamismo storico richiudendoci nelle nostre antiche “sovranità”, o peggio illudendoci, da bravi neo-luddisti, che possiamo distruggere i nuovi telai meccanici per far sopravvivere l’antico artigianato casalingo.
Dobbiamo avere il coraggio di affrontare il grande cambiamento con cui dobbiamo fare i conti con la pazienza dei riformisti che sanno che non ci sono soluzioni, ma solo sperimentazione di ipotesi di soluzione attraverso le quali si costruirà poi quella migliore (e certo non finale: le soluzioni finali sono sonni della ragione che generano mostri).
Luciano Cafagna ci sarebbe non solo di aiuto, ma di guida, con la sua saggezza dolce, il suo disincanto mai cinico, la sua apertura a trovare sempre interesse nell’acquisire nuovi compagni di viaggio. Sono doti di cui oggi c’è carenza, in politica come nell’accademia e nel pensiero impegnato. Ma lui ci direbbe che probabilmente non ce ne è tanta come tendiamo a pensare: siamo noi che siamo pigri a cercarla perché non vogliamo uscire dalle nostre reti di relazione e dagli orizzonti che abbiamo dipinto sulle nostre pareti di casa.

di Marco Gervasoni

Non saprei prevedere se stiamo per subire una nuova «grande slavina». Certo i segnali ci sono tutti. E allora vale la pena di riaprire per l’ennesima volta (prova ne sono le plurime sottolineature e le pagine semi pendenti) l’omonimo libretto di Luciano Cafagna.
Libretto solo per la mole: nemmeno duecento pagine, una brevità inversamente proporzionale alla densità delle argomentazioni. Tanto che, pur essendo intercorsi diciassette anni da Tangentopoli, il libro di Cafagna, pubblicato nel 1993, è ancora il solo lavoro di carattere storico in grado di interpretare cosa successe allora.
E specifico “storico” non solo perché Cafagna insegnò questa disciplina all’Università per molti anni (anche se meno di quanto avrebbe dovuto: comunisti e democristiani in cattedra non gli facilitarono la carriera): ma perché in ogni suo scritto, anche il più estemporaneo, si può vedere all’opera la mente dello storico, capace di discernere l’evento di rottura tra i mille secondari, di far interagire tra loro i tempi lunghi con quelli brevi, di immettere le novità nelle condizioni strutturali di lungo periodo.
Nel 1940 Marc Bloch, volontario al fronte da ufficiale, buttò giù in due mesi uno straordinario saggio di «storia immediata», l’Etrange défaite, che ancora oggi è indispensabile per capire la Francia della prima metà del XX secolo (e forse anche quella attuale). La Grande Slavina è la nostra Etrange défaite. E forse questo raffronto non sarebbe dispiaciuto a Cafagna, che Una strana disfatta intitolò uno suo libro del 1996, ideale continuazione di La Grande Slavina, visto che rifletteva sul fallimento del socialismo italiano e di quello riformista in particolare.
Perché La Grande Slavina ci può far capire cosa sta succedendo? Sostituiamo al crollo del Muro di Berlino che apre il volume la crisi del 2008, Brexit e elezioni di Trump, e molte analogie torneranno. Un ordine mondiale finiva allora: un ordine meno lungo e solido, quello fondato sugli Usa unica superpotenza regolatrice, si è chiuso nel 2016. Incombe la crisi fiscale dello Stato (e del Welfare State in modo particolare), sempre rimandata e da nessuno veramente inquadrata nella sua drammaticità: si danza su un vulcano con la consapevolezza che erutterà.
E poi il cul de sac in cui si è ficcata la classe politica: allora era di un rilievo diverso, e Renzi, per dire, non è certo un Craxi. Eppure quest’ultimo è stato travolto dalla slavina, un destino che sembra, almeno in questi giorni, rischiare anche il giovane ex premier. E poi la legge di Tocqueville: se cerchi di ristrutturare un soffitto marcio e lo fai a metà o con scarsa destrezza, ti crollerà in testa: visti gli effetti, la riforma Boschi (che il sottoscritto ha sostenuto e non ne è pentito), e soprattutto l’entità del suo rigetto, hanno aperto un vaso di Pandora da cui sta uscendo di tutto. Allora, nel 1993, secondo Cafagna, ci si avviava verso la «crisi della democrazia». Che abbia sbagliato la profezia solo nell’anticiparla troppo.
di Michele Salvati

Quando si ricorda un amico il cui pensiero ha avuto su di noi una profonda influenza si corre sempre il rischio di attribuirgli idee e opinioni che forse oggi non condividerebbe. Se penso al Luciano politico –il Luciano studioso delle sviluppo capitalistico italiano richiede un altro discorso- è inevitabile chiedersi che cosa direbbe Luciano della confusa situazione nella quale si trova il nostro paese: ed è inevitabile cercare una risposta mediante analogie con quanto ha detto in passato. Ma le analogie non sempre sono pertinenti e la risposta si mischia con quanto pensiamo noi oggi, sulla base di eventi che Luciano non ha potuto conoscere.
Consapevole di questo rischio, e riflettendo su quando egli ha scritto sul partito comunista, sul duello a sinistra, sulla Grande Riforma, sulla slavina finale (e soprattutto su Cavour), non azzardo una risposta: mi limito alla domanda che gli porrei se fosse qui tra noi e che formulo in modo molto ingenuo, come per avviare una conversazione: come avrebbe giudicato ex ante il tentativo di Renzi, e come avrebbe valutato ex post le regioni del suo fallimento?
Credo che ex ante, e fino al patto del Nazareno, il giudizio di Luciano sarebbe stato positivo: la situazione politica generale richiedeva una rottura, questa rottura doveva basarsi su una strategia di riforme economico-sociali e istituzionali che spezzassero gli ostacoli che bloccavano il nostro sistema politico e il nostro sviluppo economico, e doveva aprirsi un conflitto aperto con la gestione della “ditta” che si era trascinata dal Pci al Partito democratico. Ex post l’esecuzione di questo disegno ha mostrato la fragilità di Renzi come leader “cavourriano”: non solo come uomo di Stato, ma anche nei suoi tratti machiavellici di Volpe e di Leone.
Con le cautele che ho sottolineato, così avrei avviato la conversazione. E così invito a continuarla -rileggendosi gli scritti di Luciano- tutti coloro che lo considerano una delle poche teste pensanti della sinistra italiana. E che gli hanno voluto bene.

di Luigi Covatta

Luciano è stato uno dei miei maestri, oltre che un amico e un compagno. La prima volta lo avevo incontrato all’Università di Milano, nelle vesti di assistente alla cattedra di storia moderna nel lontano 1963. Stava per bocciarmi, perché avevo le idee confuse su Carlo V: ma fortunatamente il cattedratico (Marino Berengo) fu più indulgente.
Poi lo frequentai a distanza, per così dire: cioè da lettore dei suoi interventi sull’attualità politica, che sempre mi aiutavano a smorzare entusiasmi eccessivi ed a correggere opinioni partigiane. All’inizio degli anni Settanta, per esempio, quando su Giovane critica (la rivista che allora pubblicava Giampiero Mughini) smontò il marxismo primitivo che ispirava il “movimento”. Oppure dieci anni dopo, quando con Giuliano Amato pubblicò Duello a sinistra, un pamphlet che mi indusse ad una salutare revisione del concetto di “riforme di struttura” caro a Riccardo Lombardi. Ed infine nei primi anni Novanta, quando La grande slavina mi consentì di non perdere la bussola nella tempesta perfetta che portò al cambio del nostro regime politico.
Di persona cominciai a frequentarlo assiduamente grazie ad Emanuele Macaluso, che con il suo mensile (Le ragioni del socialismo) aveva allestito una zattera per portare in salvo una cultura politica troppo sommariamente archiviata. Mi onorò della sua amicizia, tanto che volle impreziosire con la sua prefazione un volume che pubblicai nel 2005. Ed il suo sostegno fu determinante, nel 2009, per avviare la nuova serie di Mondoperaio.
Cinque anni fa lo ricordammo all’Enciclopedia italiana, alla presenza del Capo dello Stato, ed alla Fondazione Basso, alla quale Luciano aveva lasciato le sue carte. Intervennero Giuliano Amato, Giorgio Ruffolo, Michele Salvati, Ernesto Galli della Loggia ed altre persone che come lui avevano intrecciato la professione intellettuale con l’impegno politico e civile. Gli accademici puri invece si sottrassero. Si giustificarono dicendo di volere distinguere la sua figura di intellettuale dal suo impegno politico, che probabilmente consideravano un vezzo non del tutto commendevole. E si impegnarono comunque a ricordarlo con un convegno della Sissco, la società degli storici contemporanei di cui era stato il primo presidente. Cinque anni dopo, peraltro, l’unico ricordo di Cafagna a cura dei suoi colleghi resta il necrologio pubblicato allora nel bollettino della Sissco (www.siscco-it/in-memoriam/luciano-cafagna-1926-2012/)