Nelle sue memorie Samuel Hoare (poi lord Templewood), esponente conservatore degli anni trenta, ricorda di aver proposto, da ministro degli interni (i poveri inglesi non hanno un ministro della giustizia), una legge di riforma del sistema carcerario. Legge che, per un insieme di circostanze, non potè essere approvata dal Parlamento; per essere poi varata, nel secondo dopoguerra (e con modifiche marginali) dal governo laburista.
“Poco male” (questo nella sostanza, il ragionamento di Hoare) “perchè la legge era giusta, ma al tempo mio non c’era ancora il clima politico e psicologico per farla passare”. E qui il Nostro esprime alla perfezione la dialettica tra conservazione e riformismo che percorre felicemente tutta la storia della Gran Bretagna.
Alla base, l’idea che le cose che esistono non sono solo un retaggio del passato (degno, per ciò stesso, di rispetto), ma sono anche portatrici di senso e di valore. E che di conseguenza qualsiasi proposta di cambiamento deve superare una specie di onere della prova: e non solo sotto il profilo della sua validità intrinseca ma anche del suo inserimento razionale nella realtà esistente.
E’ la migliore definizione del riformismo: tanto più se formulata da un conservatore. Altra cosa, e tutta diversa, è la “riformite”: cioè la versione distorta del riformismo che, in pratica e in teoria, ha segnato di sè tutta la storia della seconda Repubblica. Qui scompare la feconda tensione dialettica tra vecchio e nuovo: perchè ciò che esiste è per definizione, male; e perchè il “nuovo che avanza” avanza perciò nel vuoto più totale, sottratto a qualsiasi prova e verifica razionale. Il risultato finale è un sistema totalmente privo di forma. E perciò, astuzia della ragione, sostanzialmente irriformabile.