I commenti sul voto referendario sono già spariti dai quotidiani:  come nel campionato di calcio, importava il risultato, e per commentarlo bastava un “Processo del lunedì”.

Qualche nostro collaboratore, però, ha voluto approfondire: magari, come Celestino Spada, addirittura prima del 4 dicembre; oppure, come Nicola Savino, sforzandosi di dare un seguito costruttivo al No, che invece per Carlo Troilo segna l’omega di una cinquantennale militanza politica. Ed infine Paolo Allegrezza che chiudendo la sua riflessione propone un’analisi su possibili nuovi schieramenti riformisti per contrastare neo populismi identitari.

Proponiamo queste considerazioni ai lettori, con la speranza che essi vogliano commentarli, o comunque commentare il risultato referendario da altri punti di vista: nella convinzione che il web debba servire anche a far circolare qualche idea, oltre che a diffondere la post-verità.

 

Grillo, D’Alema e Berlusconi
Celestino Spada

A me pare che la vittima sacrificale di questa campagna referendaria nell’opinione pubblica e dell’esito del voto – quale esso sia – sia il Movimento5stelle o, se vogliamo personalizzare, Beppe Grillo. Grillo è (già) perdente, vinca il sì o il no: dal momento che in questo caso  saranno Berlusconi, D’Alema, ecc. a intestarsi la vittoria e a gestire a livello istituzionale la fase successiva. Grillo, di fatto, sta portando acqua a loro e agli altri, cioè a un personale politico contro il quale, nell’immagine e nella realtà, il M5s è nato (Renzi non c’era), è stato percepito nell’opinione pubblica e si è affermato presso l’elettorato. In sostanza, l’impegno di D’Alema prima e di Berlusconi poi per il no ha fatto e fa affidamento su truppe che essi non hanno e che anzi sono ad essi ostili: in particolare sui voti raccolti finora dal M5s e che, dicono i sondaggi, potrebbero esprimersi con un no nell’occasione referendaria.

Non è stato il M5s a mettersi in questa situazione. La sua scelta di contrastare la riforma costituzionale si colloca nella strategia di filibustering parlamentare seguita all’affermazione del 2013. Sono stati gli altri, a cose fatte magari con il loro contributo (Berlusconi, Lega Nord per il ruolo di Calderoli in Senato, segmenti del Pd), ad affiancarsi ad esso in questi ultimi mesi e a cercare di cavalcare l’onda avversa all’esito dell’iter parlamentare, per motivi loro, con obiettivi loro. E il M5s ha finito per restare prigioniero dalla scelta fatta dai suoi attuali e occasionali compagni di strada, che si sono alleati contro Renzi.

A questo punto ci si possono porre alcune domande. Domanda n. 1: l’elettorato del M5s ha percepito tutto questo? Domanda n. 2: nel caso l’abbia percepito, è disposto a portare acqua ai leader del centrodestra e del centrosinistra della seconda Repubblica, oggi “perdenti”, con partiti ed elettorati scassati o perduti, e in cerca di rivincita con i voti 5stelle? Domanda n. 3: il leader di opinione Beppe Grillo è anche il “signore” dei voti popolari raccolti dal M5s?

Mi pare ci siano pochi dubbi che alla prima domanda si possa/debba rispondere di sì. Proprio perché lo scontro d’opinione nella società e nella politica non è stato tanto sul merito, quanto fra gli stereotipi impegnati nella rappresentazione di sé e degli avversari, sulle immagini e la “cornice comunicativa” in cui esse si sono proposte al pubblico, vedere Beppe Grillo in quella compagnia deve essere stato abbastanza traumatico per molti elettori del M5s. Qualcosa deve essere successo e deve essere corso nelle linee di comunicazione interne al Movimento, se il fondatore e il “portavoce” hanno ritenuto opportuno avvertire che nel votare (no) andava usata la pancia, più che la testa. Ma l’argomento non deve essere risultato molto convincente se a Torino, nella piazza dell’ultimo comizio di Grillo, è stato allestito un doppio “gazebo”, uno per il sì e uno per il no, a testimoniare uno stato di fatto nel quale ormai l’obiettivo minimo del leader è di ricondurre l’una e l’altra scelta nel quadro delle opzioni da lui “autorizzate” ai votanti Cinquestelle. Una scelta addirittura difensiva all’interno. Sicché l’ipotesi di una risposta positiva alla prima domanda avrebbe, come corollario, la risposta negativa alle due successive.

Ma se il voto dell’elettorato del M5s non va tutto sul no e, anzi, può andare in parte anche sul sì, quante chance ci sono per il “no” di affermarsi? Anche nell’ipotesi che l’elettorato di centrosinistra e di centrodestra voti, ciascuno, per i due terzi per il sì, il primo, e per il no il secondo? Renzi ha cercato di”sfondare” qui, più che di recuperare la dissidenza Pd: e si vedrà con quanto successo.

In ogni caso queste (possibili) dinamiche del voto devono essere collocate sullo sfondo del dato demografico, vale a dire della distribuzione territoriale dell’elettorato nelle macroregioni italiane (nessun giornale oggi fornisce questi dati, né si trovano facilmente in rete). Si resta sul generico, indicando in poco meno di 47 milioni gli elettori residenti in Italia.

Al 1° gennaio 2016 la popolazione residente italiana è così distribuita:

Nord Ovest     Nord Est         Centro           Sud                  Isole                Totale ITALIA 

16,1 milioni    11,6 milioni     12 milioni      14,1 milioni     6,7 milioni       60,6 milioni

E’ evidente che l’affermazione con il 60% dei voti espressi del sì o del no in una macroarea più popolata (con maggior numero di elettori) non equivale all’affermazione con la stessa maggioranza dell’opzione opposta in una macroarea meno popolata (con minor numero di elettori). Naturalmente varrà il dato dell’affluenza alle urne, non necessariamente omogeneo nelle diverse macroaree. In ogni caso, gli osservatori convergono sulla possibilità che nelle regioni del Nord (in complesso più di 27 milioni di abitanti) abbiano maggiore peso sulla scelta dell’elettorato, di quanto ne abbiano al Centro e al Sud, le prese di posizione per il sì delle associazioni delle imprese, delle professioni e di altri corpi intermedi.

E’ possibile che insieme alle variabili che potranno caratterizzare le scelte dell’elettorato del M5s saranno queste dinamiche di opinione e di voto nelle diverse macroregioni a decidere della sfida. La mia ipotesi di affermazione del sì (spero non sia solo un wishful thinking) fa riferimento a queste due dimensioni del voto.

 

Lo spazio aperto
Nicola Savino

Lo spazio aperto dalla storia con il referendum del 4 dicembre, se trascurato, può diventare un baratro. Occorre dunque attivarsi subito con iniziative che individuino sia gli schemi delle leggi elettorali ,sia  gl’interventi utili a rafforzare la governabilità.  Questa, con la “sfiducia costruttiva” (non si può deporre un governo se non è pronta una reale alternativa), e con il superamento dei Regolamenti parlamentari ( che servirono alla “consociazione” ma ora solo all’ostruzionismo fine a se stesso). Quelle, con l’obiettivo di evitare che il Senato tolga governabilità al sistema e che la Camera sia scollegata dalla realtà sociale: recuperando il proporzionale e correggendolo in modo da superare gli arbitrati delle formazioni minori.                                                                                                        Rispetto a queste urgenze,diventa poi non più rinviabile l’applicazione degli art 39 e 49 della Carta a tutela della partecipazione infine risvegliatasi con questo referendum: per liberare la politica dalle infiltrazioni  che  l’hanno via via corrotta a partire dalla caduta del Muro e delle ideologie: cioè, della politica come ricerca ed attuazione delle soluzioni ai problemi delle persone e delle società in evoluzione.

Quanto alla legge per la Camera, si potrebbe rivisitare il testo che fu in vigore fino al ‘92, ma con il ridimensionamento dei collegi elettorali maggiori a 9/10 seggi. Questo solo particolare, ad un tempo: a)eliminerebbe la possibilità di ottenere seggi per i partiti che in collegi di circa 700.000 elettori non raggiungessero una percentuale del 9%;  b) ridurrebbe le spese per la propaganda elettorale e l’incidenza dei media di caratura nazionale, con vantaggio dell’autonomia finanziaria dei candidati e della stessa parità di genere; c) migliorerebbe la visibilità “naturale” dei candidati, il controllo sociale degli eletti ed il loro rapporto col territorio. Si potrebbe così superare gran parte dei difetti  della preferenza, pur indispensabile per temperare il “primato” del partito, che ,“riabilitato” come sopra, legittimamente eserciterebbe in collegialità il potere di scelta e di collocazione dei candidati in lista.

A questa soluzione, già ampiamente sperimentata e perciò nota per i difetti e per il modo di correggerli, è possibile apportare varianti e integrazioni. Anzitutto la soluzione del nodo di ogni democrazia: regole precise negli statuti dei partiti, trasparente aderenza alla Carta, possibilità di controllarne il rispetto e di sanzionarle (persino escludendoli dalle competizioni elettorali). Nella misura in cui è preziosa, la democrazia va difesa senza ulteriori indulgenze nei confronti di formazioni che, con giochi nominalistici, vogliano  sfuggire all’art 49. Bisogna convincersi che il problema della politica non è quella dei suoi costi, e che associazioni sindacali e politiche sono insostituibili strumenti di partecipazione: dalla loro omessa regolamentazione dipendono i guai insuperati che arrecano periodicamente rischi alla nostra democrazia, negandole da oltre 20 anni stabilità ed efficienza.

Resta la legge elettorale per un Senato che non abbia maggioranza difforme da quella della Camera: e qui potrebbe andar bene il Mattarellum, con l’accorgimento di trasformare, in tutto o parte, la quota del 25% in premio di maggioranza per il partito o per l’alleanza collegata a quella prevalente nella Camera. Con le opportune “rifiniture”, questa idea alquanto semplice si avvarrebbe, fra l’altro, dell’esperienza già maturata circa l’equilibrio tra i collegi uninominali del Senato e plurinominali alla Camera; e potrebbe affiancarsi ,per il primo, all’estensione dell’elettorato attivo ai maggiorenni, come già proposto alla Camera nella X Legislatura  dalla Commissione d’inchiesta per i giovani.

Portare subito alla discussione nel sociale questa materia è dunque indispensabile per soluzioni tempestive e congrue ai problemi di sistema, ma anche contro i vuoti di linea che l’antipolitica, quella cui il Sì ha voluto contrapporre i suoi stessi argomenti, utilizzerebbe per uno sfascio che fosse viatico al potere. Effetto ineluso della caduta del Muro, questa fase è decisiva per governarne finalmente le conseguenze.

 

Considerazioni sulla vittoria del NO
Carlo Troilo

Concordo sul fatto che Renzi, oltre a sfoggiare la  sua abituale sicumera, questa volta ha commesso un errore politico che ha infiammato la campagna e ne ha fortemente influenzato l’esito: quello di dire (salvo poi disdirlo, il che è ancora peggio) “se perdo  me ne vado a casa”

Concordo anche sul fatto che alcuni punti della riforma potevano essere meglio formulati. In particolare, la riforma del Senato.  Fermi restando, però,  i danni stranoti del bicameralismo paritario, in cui, per fare un solo  ma significativo esempio, si sono incagliate tre leggi importanti in materia di diritti civili: ius soli, tortura e omofobia. Che, a questo punto, verranno approvate solo nella  prossima Legislatura, ammesso che ci sia un governo aperto sui diritti civili, come indubbiamente è stato quello di Renzi (leggi approvate in tre anni: unioni civili, divorzio breve, femminicidio, “dopo di noi”).

Nulla avrebbe  impedito, dopo un periodo di sperimentazione, di “riformare la riforma” del Senato, magari abolendolo del tutto. E’ invece certo, visti i risultati, che per moltissimi anni non  sarà più possibile ipotizzare “l’abolizione” dei 300 senatori. Qualunque Parlamento ci provasse, ovviamente, si sentirebbe rispondere; “Ma come?  Ci hanno già provato e la grande maggioranza degli italiani ha detto che i Senatori non si toccano”. E lo stesso diranno i rubastipendio del Cnel, del 50% delle Camere  di Commercio  superflue che si sarebbero  abolite, per non dire delle province, abolendo le quali dalla Costituzione sarebbe stato molto più facile cancellare a breve scadenza le 110 ottocentesche  e inutilissime Prefetture, ospitate nei più bei palazzi d’Italia,  e tutte le varie strutture periferiche  delle Stato legate proprio alla esistenza delle province e dei prefetti (uffici del registro e via dicendo).

Nelle province – tanto invise ad Einaudi e La Malfa –  non più cancellate dalla Costituzione, troveranno il modo di tornare  i 3.400 famelici consiglieri che la legge Delrio aveva eliminato, con lo stuolo delle loro innumerevoli e costose sagre e feste di paese. E potrei ovviamente continuare, data la vastità della Riforma, assurdamente e ripetutamente votata in Parlamento dagli stessi politici che hanno guidato la campagna per il NO.

Penso che gli italiani abbiano perso una grande occasione per risolvere alcuni importanti problemi (come quelli che ho citato e molti altri) ma soprattutto per dare un segnale di una volontà di cambiamento in un paese in cui da decenni tutto resta immobile.

Soprattutto, mi stupisce che tante persone che conosco e stimo abbiano potuto unire il loro voto a quello di anziani politici come D’Alema e Bersani –  che hanno fatto danni notevoli al Pd e al paese e che sono solo desiderosi  di una vendetta personale contro chi li ha giustamente messi al margine – ma soprattutto di personaggi come Berlusconi, dipinto  per decenni  come il peggiore dei mali (ahimè, la follia delle cento copertine dedicategli dall’Espresso):, per non parlare dei razzisti di Salvini e dei fascisti di Fratelli d’Italia e del M5s.

Metto fra i “fascisti” anche gli uomini di Grillo perché il Movimento, privo di un programma politico chiaro e credibile, si caratterizza per una totale mancanza di democrazia interna, per la venerazione per il Capo, per l’insulto (Renzi “scrofa ferita”)  e la parolaccia come slogan  politico: il VAFFA del grillini ricorda molto il “Me ne frego” dei fascisti.

Concludo con una amara riflessione sugli italiani: amara ma non qualunquistica, perché basata su dati di fatto inconfutabili. Gli italiani  sono stati quasi tutti fascisti non solo dopo il delitto Matteotti e i gas gettati sulle popolazioni civili del futuro “Impero”, ma anche quando la polizia del Duce guidava le SS a caccia di ebrei nel Ghetto e in ogni angolo della città

Quando si trattava di contrastare l’eccessivo potere  della Dc (che pure, fra luci e ombre, ha guidato la rinascita del paese) hanno scelto in grande maggioranza un Pci  che brindava ai carri armati sovietici a Budapest e a Praga, lasciando le briciole dei loro voti ai partiti laici e riformisti: i socialisti di Nenni e Pertini, i repubblicani di La Malfa e Visentini, i socialdemocratici di Saragat, i liberali di Einaudi, i radicali di Pannella e Bonino.

Quando è scoppiata Tangentopoli (un insieme di reati  che era giusto perseguire fino in fondo) si sono trasformati quasi tutti in “guardoni” dei processi messi in onda da una Rai servile, ridendo – come la plebe romana dinanzi  ai leoni che sbranavano i cristiani –  per le “bavette” di Forlani e idolatrando Antonio Di Pietro, magistrato e poi politico  di dubbia moralità.  E quando Berlusconi “è sceso in campo”, gli hanno dato per tre volte la vittoria elettorale ed il governo.

Dunque gli italiani non sono il popolo cui vorrei appartenere: sempre più incolto, sempre più aggressivo, sempre più propenso a rubare (bastino i 150 miliardi  di evasione fiscale, certamente non tutti dovuti ai grandi capitalisti).  Anche  in città come Roma  – famosa un tempo per la bonomia dei suoi abitanti –  se protesti con chi parcheggia sugli scivoli per  i disabili ti becchi una serie di insulti, e se insisti rischi una coltellata.

Ovviamente, la colpa di questi loro limiti, come si diceva  una volta, “è della società”. Basta leggere il favoloso (e spaventoso) libro di De Mauro sulla “cultura degli italiani” o pensare che l’educazione civica, introdotta come materia di insegnamento obbligatoria da Aldo Moro nel 1958 si è persa nella gran confusione della scuola italiana, proprio quando sarebbe più indispensabile. Ma certo il loro modo di pensare e di agire non migliorerà se vinceranno “i nuovi barbari”, come il voto di domenica  fa fortemente temere.

Quando vedo apparire in TV Grillo, Salvini o  Storace (risparmio la Meloni perché mi hanno insegnato ad essere gentile con le signore) mi tornano in mente le parole magnifiche con cui il Vico descriveva gli uomini  primitivi: “Bestioni tutta ferocia e stupore”. Ora, gli elettori del NO si preparano  a godere del loro buon governo. Che “lo stellone” d’Italia ci assista.

L’aspettativa media di vita per i maschi italiani è di 78 anni. Avendoli compiuti a giugno, io ho già goduto di un semestre supplementare.  Mi sono iscritto al Partito socialista nel giugno del 1956, esattamente 60 anni fa. Da allora, pur non avendo scelto la politica come professione, sono sempre stato un militante socialista (e per frequenti periodi anche radicale).

Ora non me la sento più di combattere contro i mulini a vento.  Vado in pensione dalla politica con un grande rammarico, solo in parte attenuato dalla certezza di aver fatto il possibile e di averlo fatto con onestà. E poiché ho la fortuna di abitare a due passi da Villa Borghese, starò un po’ di più “ai giardinetti”.  Sperando che nel frattempo la disastrosa sindaca Raggi (il cui  operato disastroso evidentemente non basta agli elettori di Grillo per “cancellare” i 5 Stelle dalle loro simpatie) non  abbia il tempo di distruggere anche la più bella villa del mondo.

Giorni fa, parlando con un mio nipote di 16 anni, ho scoperto in lui una passione per la politica, una conoscenza dei fatti e delle persone ed una serenità di giudizio che sono state un vero regalo per me, ormai rassegnato ad una generazione “senza politica”. E così, mi sono tornati in mente i versi di Rocco Scotellaro, che fra una sconfitta e l’altra nelle sue battaglie per i contadini del Sud, fra i tanti morti ammazzati dalla polizia di Scelba, così chiudeva la sua più bella poesia:

Ma nei sentieri non si torna indietro

Altre ali fuggiranno

Dalle paglie della cova

Perché lungo il perire dei tempi

L’alba è nuova, è nuova.

 

Il garbuglio elettorale
Paolo Allegrezza

Alcune considerazioni sul garbuglio elettorale prodottosi all’indomani del voto referendario (ma, come vedremo, non esclusivamente riducibile a esso). Il punto di partenza non può che essere il sistema politico tripolare che si è prodotto all’indomani delle elezioni politiche 2013, e la conseguente impossibilità di far produrre a questo sistema ciò che per sua natura non può: una legge che consenta di avere una maggioranza certa la sera delle elezioni.

L’unica soluzione che potrebbe consentire questo risultato è il doppio turno di collegio. Prevedibilmente a farne le spese sarebbero i 5 stelle, meno radicati sul territorio e sprovvisti finora di un ceto politico locale, e a esserne favorito il Pd. La destra, che non a caso l’ha sempre avversato, ne uscirebbe perdente.

Il treno del sistema francese è passato una volta, ai tempi della bicamerale D’Alema e del semipresidenzialismo spurio lì previsto, e da allora non ha costituito più una possibilità. Allo stato attuale dell’arte neanche il proporzionale su modello Italicum funziona alla bisogna, considerando che la previsione di un premio di maggioranza eccessivo determinerà il più che probabile intervento censorio della Corte, cui va aggiunto il nodo dei capilista bloccati e delle candidature plurime. La stessa legge regionale (il “Tatarellum” modificato a macchia di leopardo dopo le revisioni costituzionali del 1999 e del 2001) andrà messo alla prova, giacché nell’ultima tornata elettorale (2013) la corsa era ancora a due.

Chi invoca il “Mattarellum” (75% maggioritario, 25% proporzionale, con scorporo nelle due Camere e sbarramento del 4% alla Camera) dovrebbe ricordare che due volte su tre (’94, ’96) ha prodotto maggioranze destinate a dissolversi in Parlamento: nel primo caso per i due diversi schieramenti proposti dalla destra al nord e al sud, nel secondo per le desistenze Ulivo – Rifondazione.  Solo la grande marea berlusconiana del 2001 produsse un risultato netto.

A ciò va aggiunto che le simulazioni applicate al “Mattarellum” sulla scorta dell’attuale quadro politico dimostrano la necessità del ricorso a coalizioni post voto, non essendo alcuno dei tre concorrenti in grado di aggiudicarsi la maggiorana assoluta dei seggi. Con una piccola sorpresa: simulando i dati delle politiche 2013 il centrodestra batterebbe, se pur di poco, il centrosinistra, mentre sensibilmente ridimensionati ne uscirebbero i 5 stelle (http://cise.luiss.it/cise/2016/12/22/con-il-mattarellum-i-risultati-del-2013-avrebbero-visto-il-centrodestra-avanti/).

Anche l’estensione al Senato dell’Italicum ipoteticamente sforbiciato dalla Corte (proporzionale a turno unico con premio alla lista in grado di oltrepassare il 40%) proposta dai 5 stelle non garantirebbe, stanti gli attuali rapporti di forza tra i partiti, alcuna maggioranza. Stesso risultato nel caso (ben più bizzarro) di un’accoppiata Italicum-“Consultellum” (quest’ultimo un proporzionale puro con sbarramento dell’8%  al Senato per i non coalizzati), che per di più incontrerebbe il veto di Mattarella. Né va meglio con Il “Provincellum”: collegi uninominali e ballottaggio tra le due liste più votate al primo turno con premio di maggioranza che consente di conquistare il 60% dei seggi. Si tratta di una variante migliorativa dell’Italicum (i collegi invece del mix preferenze e capilista bloccati). Ma non a caso è scomparso dal dibattito post referendario e non si capisce come possa tornare in auge.

C’è poi il “Mattarellum” corretto, con l’estensione della quota proporzionale al 40% e premio di maggioranza, tutto da definire. E’ una soluzione che sconta l’ostilità dei 5 stelle ai collegi e la necessità di calibrare un premio diverso per Camera e Senato, stante l’elezione a base regionale di quest’ultimo (Cost., art. 57). La memoria della non vittoria bersaniana del 2013, causata dalla regionalizzazione del premio al Senato imposta dal presidente Ciampi nel 2005, sconsiglia questa strada. Se il premio è un piccolo correttivo nel senso della governabilità è legittimo, ma se diviene abnorme ricadiamo nei vecchi peccati. Un sistema a premio funziona nel bipolarismo, ma è a mio parere scarsamente utilizzabile nell’attuale situazione.

Rimane un’ultima possibilità, e ci porta in Germania. La legge elettorale tedesca con doppia scheda, nonostante il 50% di collegi uninominali, è  a base proporzionale: la distribuzione dei seggi avviene sulla scorta dei risultati ottenuti da ciascuna lista (bloccata) nel proporzionale, cui vanno sottratti i seggi vinti nei collegi. Rimangono escluse dal Bundestag le liste che non superano lo sbarramento del 5% o abbiano meno di tre eletti direttamente.

L’unico correttivo che si avrebbe l’obbligo di introdurre da noi riguarda la variabilità del numero degli eletti, possibile in Germania ma non in Italia per dettato costituzionale. E’ il problema dei seggi in eccedenza che si determina qualora una lista conquisti un numero di eletti nei collegi superiore ai voti nella quota proporzionale. Il rimedio c’è: ferma restando l’intangibilità del rapporto elettore-eletto, basterebbe sottrarre alla quota dei seggi attribuiti su base proporzionale quelli ottenuti nei collegi.

Il vantaggio della legge tedesca è costituito dall’utilizzo dei collegi, dall’effetto maggioritario prodotto dallo sbarramento (con conseguente riduzione dei gruppi parlamentari a non più di cinque), dalla rinuncia a meccanismi distorsivi quali i premi. Se governi di coalizione devono essere, almeno si adotti un sistema coerente e sperimentato. Meglio di soluzioni pasticciate conseguenza di alleanze elettorali di pura convenienza. Le simulazioni prodotte dal senatore Pd Fornaro applicando il modello tedesco al Senato (sondaggi fine novembre 2016 ed europee 2014) fotografano la possibilità di una coalizione Pd-Forza Italia che disporrebbe di 167 seggi sui 158 costituenti la maggioranza assoluta.

Un’ultima considerazione. I tempi del cambiamento politico sono divenuti rapidissimi, la situazione odierna è lontana anni luce da quella di appena tre anni fa. Si pensi soltanto all’ascesa dei populismi e alla crisi europea. La costruzione di una coalizione democratica, riformista, europeista, federalista, è l’unico modo per vincere il confronto con i neonazionalismi protezionistici e xenofobi che cavalcano con successo la crisi. L’assonanza di questi giorni tra 5 stelle e Lega sui temi dell’immigrazione è l’annuncio di ciò che può accadere. E allora che i riformisti stiano con i riformisti, di là delle tradizionali appartenenze di schieramento, in alternativa ai neo populismi identitari. Questa è, intrecciata alla rivoluzione capitalistica fondata sull’automazione, la questione politica dei nostri tempi. Ma necessita di un’analisi approfondita estranea a questa breve nota.