La parabola berlusconiana appare oramai anche a molti suoi sodali alla fase conclusiva. Un ciclo politico, storico, culturale sembra concluso. Del resto le avventure umane, individuali e collettive, si presentano come cicli in quanto seguono andamenti irregolari, hanno caratteristiche che si trasformano: con una accettabile forzatura possiamo dire che hanno un inizio ed una fine. Alcuni studiosi si sono dedicati a calcolarne i tempi di durata indicandone possibili costanti; più semplicemente le strategie politiche, i movimenti culturali hanno un andamento ciclico in quanto nascono e muoiono per l’esaurirsi di situazioni, delle congiunture economiche e culturali che li hanno favoriti.
Di fronte alla fine di un ciclo i comportamenti di chi li ha interpretati e favoriti sono piuttosto ripetitivi, improntati all’ostinazione, al mantenimento del ruolo anche se esaurito. Sono una minoranza i leader che sanno farsi da parte nonostante i meriti acquisiti. Si pensi a Churchill alla fine della seconda guerra mondiale o ad Adolfo Suarez nella transizione post franchista in Spagna. Un chiaro esempio di ostinazione distruttiva, autodistruttiva, è rappresentato dalla parabola napoleonica. L’imperatore dei francesi, nonostante i segnali chiari della fine del suo potere sull’Europa del tempo, si ostinò nella sua politica finendo i suoi giorni prigioniero su un isoletta sperduta.
Nelle sue memorie Metternich, ministro degli esteri dell’impero asburgico, racconta di un suo importante colloquio con Napoleone nell’estate del 1813; l’inverno precedente l’armata francese era stata sbaragliata in Russia, ora si profilava un nuovo conflitto contro le forze coalizzate di Austria, Prussia e Russia. Metternich suggerì a Napoleone di lasciare che si ristabilisse un equilibrio in Europa, fece presente che i francesi erano stanchi delle guerre di conquista, di continuare a pagare una tassa di sangue. Bonaparte doveva chiudere con le sue ambizioni e rientrare nei confini storici della Francia: aveva sposato una figlia dell’imperatore d’Austria, aveva un erede; vi era una onorevole via d’uscita.
Napoleone rimase irremovibile: sottovalutava le forze degli avversari; dichiarò al riguardo di conoscere perfino il numero dei tamburi di ogni reggimento nemico. Confidava, come per il passato, sul suo genio strategico. Metternich concluse il lungo colloquio con questa frase: “Siete perduto, ne avevo il presentimento venendo qui. Ora che me ne vado ne ho la certezza”. Aveva ragione. In ottobre a Lipsia l’armata napoleonica fu sbaragliata, e per Napoleone fu l’inizio della fine, prigioniero del suo modo di intendere, incapace di aprire una nuova stagione.
Sono pochi i leader di una stagione politica che sanno prendere atto dei cambiamenti e ritirarsi in buon ordine o trasformarsi. E’ interessante notare la storia parallela del generale napoleonico Bernadotte: promosso reggente di Svezia nel 1809, prese con tanta serietà il suo incarico da rifiutarsi di seguire Napoleone nella sua politica e abbandonandolo al suo destino. L’attuale re di Svezia è Carlo Gustavo Bernadotte.
Napoleone non perseguì altra legittimazione che quella fondata sulla sua indiscussa capacità militare per scardinare gli equilibri tra le nazioni senza ipotizzare alcuna solida mediazione politica. Per salvare la sua opera avrebbe dovuto ritirarsi, ridefinire le sue strategie. Finì come un re da operetta, o un brigante corso, al confino in un’isola in mezzo all’Atlantico, tra Africa e Sud America.
Qui non si vuole discutere capacità, competenze, carisma ma la concezione della leadership. Essa implica l’elemento della costruzione, della risoluzione dei problemi, del compito anche auto assegnato, dei successori.
Oggi in Italia, aldilà di ogni valutazione sul ruolo e comportamento della magistratura, sull’incisività o meno della politica berlusconiana, sulle strategie e tattiche della sinistra, il ciclo di Berlusconi appare al termine e se ne intravede una fine simile a quella di tanti che come lui sono stati prigionieri del loro carattere, innamorati di sé più che del progetto collettivo di cui si erano fatti portavoce. E come nei casi consimili, la sua sconfitta sarà la fine dell’esperienza complessiva e delle motivazioni che ne erano alla base.
Un bel articolo, senza polemiche, senza saltare sul carro dei vincitori (cioé coloro che cantano vittoria per la fine di Silvio) e senza giudizi sulla politica di Berlusconi ma toccando un punto importante – quando smettere. Il problema però è che non tutti hanno la fortuna di poter smettere al momento quisto, non tanto per l’impedimento posto dalla loro personalità e/o sete di potere, ma per fattori oggettivi al di là del loro controllo.