L’annuncio enfatico della abolizione prossima futura del finanziamento pubblico ai partiti e, ancor più, le reazioni apparentemente soddisfatte ma in realtà mitigate e rancorose da cui è stato accolto la dice lunga sulle condizioni della politica e della cultura politica nell’Italia di oggi.
Nessuno ha contestato il provvedimento nel merito, magari in nome di altre e più funzionali soluzioni del problema. Perché nessuno è entrato nel merito. Perché sono rimasti in campo, nel silenzio totale degli interessati, e all’insegna della corsa al “più uno”(e, spesso, con sceneggiate paesane come quella praticata tra Renzi e Grillo) quelli che apprezzavano il provvedimento come segnale e quelli, sempre più numerosi, che lo consideravano l’ennesimo imbroglio della Casta.
Naturalmente, per entrare nel merito, occorreva, per prima cosa, interrogarsi sulle finalità diciamo così positive del provvedimento. Magari per accorgersi da subito che queste finalità non esistono.
Venire incontro alle richieste e/o alle esigenze del mondo del lavoro? Il nesso ci sfugge. Le richieste in tal senso non sono arrivate; o, comunque, non sono prioritarie.
Corrispondere alle pressioni riformatrici dell’Europa? “Nulla risulta a questo ufficio”. E come potrebbe, del resto, la stessa Europa, dove il finanziamento ai partiti è praticato, senza problemi, in tutte le grandi democrazie, richiedere, proprio a noi, quest’atto di contrizione?
Ridurre la spesa pubblica? Il provvedimento entrerà a regime solo nel 2017.
Eliminare privilegi odiosi? Non dubitiamo affatto che i partiti siano odiati; e che, per la proprietà transitiva, questo sentimento si trasmetta anche ai loro dipendenti. Ma stentiamo a credere che, tanto per dire, la lotta contro il privilegio passi attraverso il licenziamento in tronco del responsabile cultura della federazione Pd di Bologna.
Riformare i partiti? Il finanziamento pubblico, al di là delle sue forme estremamente discutibili, era un riflesso tardivo della funzione politica loro attribuita dall’art 49 della Costituzione. Eliminarlo li retrocederà al ruolo di una specie di Ong; ma con scarsissima possibilità di fruire in modo significativo del 2 per mille. Dovranno quindi basarsi solo sul finanziamento privato; e senza disporre del know how e delle reti di supporto associativo dei partiti americani. Ciò che accrescerà a dismisura il peso di quelli che forniranno i soldi e di quelli abilitati internamente a reperirli: da una parte i padroni per scelta, dall’altra i partiti padronali per necessità. Non la riforma; semmai il suo contrario.
E, allora, l’abolizione del finanziamento ha una sola motivazione: quella punitiva. Si ritiene la classe politica, tutta intera e in tutte le istituzioni che la rappresentano – parlamento, partiti, enti locali – responsabile di tutti i mali del paese e al tempo stesso irriformabile. E però abolirla in toto non si può. Né si può sostituire in toto con un’altra diversa e migliore. E allora la si colpisce a pezzi e a bocconi. Quanto basta per pregiudicarne ulteriormente l’operatività; mai abbastanza per soddisfare l’ira popolare.
La prassi è quella della decimazione. La cultura è quella del riformismo compulsivo e/o convulsivo. E, perciò, permanente.
Una roba che non esiste in alcun altro paese del mondo. Ma noi italiani siamo i campioni nell’esportazione di prodotti culturali nocivi…
Neanche la rivoluzione può essere permanente, come loro malgrado hanno appreso i trotskisti. Sul finanziamento dei partiti, comunque, se si fosse entrati nel merito sarebbe stato inevitabile, specialmente per i partiti maggiori, riconoscere che l’ipocrisia dell’ultimo provvedimento è figlia legittima di vent’anni di altrettali ipocrisie: a cominciare da quella per cui i finanziamenti vennero ribattezzati “rimborsi”, legittimando così la richiesta di rendicontazione da parte delle principali Procure. Come Benzoni sa, un approccio riformista alla questione venne proposto nel 1993, attraverso la sostituzione dei trasferimenti monetari con la fornitura gratuita o agevolata di servizi, il finanzamento – sul modello tedesco – di fondazioni promosse dai partiti (come la Fondazione Ebert e la Fondazione Adenauer), agevolazioni fiscali per il fund rasing e un efficace sistema di controlli. Ma lo chiamarono “colpo di spugna” e Scalfaro, con atto “rivoluzionario”, scartò l’approccio riformista e si rifiutò di firmare il provvedimento, il cui testo pubblicheremo nei prossimi giorni su questo sito, in modo che i nostri lettori possano esercitarsi nel benchmarking della produzione legislativa da una Repubblica all’altra.