In un suo testo del 2007, uno dei più illustri e coraggiosi rappresentanti del pensiero “liberal”americano, Paul Krugman, documentava in modo inoppugnabile il gigantesco trasferimento di reddito e di potere, dai poveri verso i ricchi e dal pubblico verso il privato, avvenuto negli Usa dagli anni ottanta in poi. Sottolineando, ed è questo il dato interessante, che questo processo non era dovuto alle dinamiche del mercato, quanto piuttosto all’affermazione di una nuova cultura politica e alle scelte, anch’esse politiche da questa derivate.
A questo punto, però, sorgeva spontanea una domanda: come mai questa politica, contraria agli interessi non solo degli “ultimi” (i quali non votano) ma anche, e soprattutto, dei ceti medi continuava ad avere il consenso dell’elettorato? Una domanda cui, peraltro, lo stesso Krugman non riueciva a trovare una risposta convincente: oscillando tra la tesi della subalternità culturale della sinistra e quella della capacità della destra di “sviare il discorso” parlando d’altro (lotta al terrorismo, polemica contro Washington e lo stato accentratore, difesa dei valori “americani” e così via).
Ma è veramente così? Perché, se fosse così, oggi, Obama avrebbe dovuto avere partita vinta in partenza. Con una campagna elettorale svolta da Obama proprio sui temi della lotta alle disuguaglianze; e senza che Romney fosse in grado di parlar d’altro (in un contesto in cui la destra religiosa ha perduto il suo “appeal” e in cui la politica estera dello stesso Obama è inattaccabile; a meno di proporsi di dichiarare guerra al mondo).
Perchè, allora, qui e oggi, il risultato è così incerto? E proprio in un dibattito incentrato sulle questioni economico-sociali?
Azzardo una risposta. Questa: che in una situazione di crisi economica, la gente tende a preoccuparsi più della crescita del reddito che della sua redistribuzione. In altre parole, di temi su cui la destra afferme di avere più interesse e competenza ( anche se non necessariamente le giuste soluzioni) e, almeno sinora, scarsamente frequentati dalla sinistra. Questo per dire alla sinistra nostrana che l’agenda Monti può essere contestata; ma per proporne un’altra, non certo per proporci la rinuncia agli F35, l’art. 18 o aumenti di tasse per far piangere anche i ricchi. Roba non da sinistra radicale ma da sinistra parolaia che agita qualche bandierina per coprire la sua pressoché totale impotenza.
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