Nel febbraio 2002 a Roma, ad una manifestazione politica dell’allora Ulivo (l’organizzazione che riuniva i partiti di sinistra e nella quale era prevalente per voti apparato e ideologia quello che restava del vecchio Pci), avvenne un fatto emblematico: alcuni intellettuali intervennero e criticarono apertamente, con durezza, tra gli applausi degli astanti, i dirigenti più illustri di quel partito. Nanni Moretti sul palco del comizio disse: “Con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai”. I dirigenti di partito sul palco erano D’Alema, Fassino e Rutelli.

Sarebbe sbagliato minimizzare il fatto in base a considerazioni personali sugli intellettuali e i politici coinvolti. Si trattò di una scena che rovesciava rituali che si erano consolidati nel secondo dopoguerra, quando i maitres à penser (registi, scrittori, cineasti, pittori, docenti) che avevano beneficiato dell’appoggio pubblico ricevuto dal Pci ossequiavano immancabilmente i leader di quel partito e s’inchinavano al loro potere, alle loro diverse e superiori competenze.

Cosa aveva portato a quel ribaltone di valori e potere? Oggi siamo abituati al massacro mediatico dei politici; il potere dei media, dei giornalisti televisivi, di intellettuali arrivati, ci ha abituati ai processi pubblici, ai Crozza che maramaldeggiano e allo stesso fenomeno Grillo. Ne siamo anche infastiditi e stanchi: ma qui vorrei cercare di trovare le radici di un tale mutamento culturale.

Proverò di seguito a indicare quello che, a mio giudizio, è stato il terreno di coltura, e alcuni fattori che hanno consentito la maturazione di questi fenomeni. L’elemento alla base di tale rivolgimento è sicuramente il dispiegarsi vincente della società di massa. Nel secolo scorso le scoperte scientifiche, l’industrializzazione, la struttura burocratica di stampo weberiano, hanno favorito la rapida crescita della moderna società democratica; il suffragio universale e un inusitato (rispetto al passato) potere di acquisto hanno obbligato i professionisti della politica, e le imprese produttrici di beni e servizi, a ricercare il consenso dei cittadini per avere successo. A guardare indifferente al consenso degli utenti è rimasta solo la nostra pubblica amministrazione.

La società di massa ha anche comportato un’omologazione al ribasso del livello culturale, e la conseguente contrazione dei servizi di eccellenza nel campo educativo, inoltre, ha reso un problema di difficile soluzione la conservazione e la formazione delle élites dirigenti, il riconoscimento del merito come discrimine.

Sulla società di massa sono state svolte analisi esemplari. Basti ricordare gli scritti di Ortega y Gasset: “Il trionfo delle masse e la conseguente magnifica ascesa del livello vitale si sono verificati in Europa per ragioni interne, dopo due secoli di educazione progressista delle moltitudini e in seguito ad un parallelo arricchimento economico della società” (1). Il progresso tecnico, il conseguente miglioramento delle condizioni di vita, la democrazia hanno permesso lo sviluppo di una società fiduciosa del suo giudicare, alla ricerca di una vita sempre più ricca di gratificazioni:e di conseguenza il diffuso rifiuto delle regole.

Ortega y Gasset la definì una “società indocile”. A suo giudizio l’uomo medio si caratterizzava per l’ignoranza dei principi stessi della civiltà, e contemporaneamente per una formidabile tendenza a giudicare: un modo d’essere violento che non era prerogativa di una classe sociale, ma che si ritrovava in tutte le classi sociali. E’ difficile non convenirne oggi, che quegli aspetti si mostrano con tanta plasticità. Basta accendere la televisione: a qualsiasi ora e su qualsiasi canale vi è una rappresentazione di quanto lui coglieva con lungimiranza. Non solo, ma oggi vediamo ancora meglio la funzione del Giornalista, di quel genere particolare di maitre a penser che eccita e indirizza l’indocilità. Il filosofo spagnolo ne aveva già colto la funzione di leader politico di nuovo tipo.

Quel processo culturale ed i modelli comportamentali conseguenti si sono sviluppati; si è venuto a creare un nuovo tipo di cittadino, un perenne bambino, desideroso di oggetti, di beni di consumo, di sentirsi libero di esprimere e realizzare i propri impulsi. Chi ne doveva ricercare il consenso è stato risucchiato dall’esigenza di fare delle scelte che accontentassero la domanda. I gruppi ristretti di governo, le aristocrazie politiche, hanno selezionato i loro quadri in quel terreno di coltura, cui necessariamente dovevano rivolgere le loro attenzioni, operandoscelte per andare incontro ai desideri ed alle aspirazioni dell’uomo massa (le riforme dell’istruzione sono esemplari a riguardo).

 

L’egemonia

C’è un secondo aspetto che, a mio giudizio, va preso in esame per cercare di spiegare l’episodio richiamato all’inizio di questo scritto: in Italia, in particolare nella sinistra, abbiamo assistito ad una lenta ma riuscita promozione del ruolo sociale e politico di quei ceti sociali che potevano avere un peso nella informazionee nella creazione di una determinata coscienza politica. Verso costoro il gruppo dirigente del Pci sviluppò una politica di attenzione, nella convinzione che per conseguire il potere in una società occidentale di massa fosse necessario conquistare una egemonia culturale.

Era una reinterpretazione del marxismo, teorizzata nei Quaderni del Carcere di Gramsci e attuata dal Pci; fu messa in evidenza da alcuni teorici del marxismo ortodosso e da un filosofo conservatore, Augusto Del Noce nella sua opera “Il suicidio della rivoluzione” (2). Va detto che Del Noce non si pose sufficienti dubbi sulla completezza e l’organizzazione editoriale dei Quaderni: sarebbe stato più corretto rivolgere la critica ai materiali gramsciani pubblicati e all’uso politico che ne è stato fatto.

Si trattava certamente di una reinterpretazione del pensiero marxista-leninista: la presa del potere in una società occidentale, con una forte e articolata presenza del ceto borghese, poteva avvenire non attraverso una rivoluzione violenta e la dittatura del proletariato ma mediante una progressiva conquista del consenso, costruendo l’egemonia culturale e quindi politica sulla maggioranza della popolazione. La presa del potere in un paese occidentale, dato il suo sviluppo e la conseguente articolazione sociale ed economica, doveva passare attraverso una prioritaria riforma culturale. Bisognava conquistare la direzione intellettuale per impadronirsi del potere politico, costruire progressivamente una robusta catena di fortezze e di casematte. Ne discendeva un’importanza strategica di quanti, a tutti i livelli, potevano uniformare il nuovo modo di intendere la società, di rappresentarla.

L’egemonia culturale richiedeva un Partito radicato sul territorio, con una leadership centrale ma condivisa: un soggetto collettivo con l’autorevolezza di un Principe machiavellico, di una Chiesa laica. Fu una battaglia per l’egemonia del razionalismo, dei principi dell’illuminismo europeo, del relativismo, del secolarismo; fu un’azione decisa di diffusione capillare di una cultura attraverso il sostegno di chi ne era reputato un sostenitore e delegittimando ogni diverso modo di vedere: “Il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema dei rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume” (3).

Basterebbe ricordare la sapienza con la quale le case editrici che facevano riferimento a quell’area politica sceglievano le pubblicazioni, l’ostracismo verso chi non si adeguava (Olivetti e le edizioni di Comunità per esempio), la conquista intelligente di spazi sempre più ampi nel mondo del cinema prima e della televisione poi, della scuola, delle università, del mondo culturale in generale. Il Partito guidava tale riforma intellettuale, dava i voti, agiva per fare emergere chi era sintonico, oscurare chi si contrapponeva. Non contava la qualità ma l’appartenenza: “Sono scrittori? Chiese la donna. Indubbiamente, rispose K. con dignità. Le loro tessere? Ripeté la donna […]. Dunque (rispose K.), per convincersi che Dostoevskij è uno scrittore, possibile che sia necessario chiedergli la tessera? Ma prenda cinque pagine qualsiasi di qualsiasi suo romanzo, e senza alcuna tessera si convincerà di avere a che fare con uno scrittore” (4).

 

Populismo all’italiana

Il Partito mise un’attenzione spasmodica nel reclutare e sostenere chi potesse farsi veicolo di una politica culturale che per brevità possiamo definire populista. Opinionisti, registi cinematografici, scrittori, artisti, insegnanti furono oggettodi proselitismo, coinvolgimento, organizzazione, promozione. Se esce, a titolo di esempio, un film apologetico su un leader carismatico della sinistra che si è contraddistinto per la strenua opposizione al riformismo e per la sostanziale subordinazione alla Russia sovietica saranno florilegi sparsi a piene mani; magari il film sarà anche stato prodotto con l’intervento di denaro pubblico. Si pensi, di contro, alle critiche infamanti che subì De Felice per i suoi lavori sul fascismo. La valutazione doveva essere solo uno strumento di lotta politica, il valore artistico o scientifico era ininfluente, era il fine a determinare il giudizio.

Questa politica culturale ha avuto successo anche perché si coniugava con le radici culturali del ceto medio italiano: il suo radicalismo, il desiderio di appartenenza, dipromozione sociale, la semplicioneria dei giudizi. Le teorie del complotto, il manicheismo, sono cibi per bocche buone: garantiscono certezze ed evitano la fatica di analisi approfondite. Se poi la si buttava sul comico basta andare a rileggersi le ancora attuali considerazioni sui costumi degli italiani di Leopardi (5).

Si è trattato di un processo culturale che per divenire egemonico non poté che scontrarsi con le politiche riformiste e socialdemocratiche: che si innestano su una tradizione liberale, che non possono consentire primati artistici, culturali, ma lasciare aperto ogni spazio ad una sostanziale libera concorrenza.

Ma la nuova strategia riconduceva il marxismo a un aspetto della storia dell’illuminismo europeo. E’ il suicidio della rivoluzione, scriveva Del Noce, perché risolta nella modernizzazione, non più la lotta di classe marxianamente intesa ma la contrapposizione tra conservatori e progressisti: “L’abbandono gramsciano del materialismo e dell’economicismo importa che l’ideologia non sia più il riflesso delle condizioni materiali ed economiche. Ne conseguono a) il nuovo concetto di società civile; b) l’interpretazione della rivoluzione come riforma intellettuale e morale; c) infine la guerra di posizione sostituita alla guerra manovrata.” (6).

Si sostituiva la lotta tra le classi sociali a un conflitto tra modernità contro tradizione, ed in questo conflitto viene arruolato il mondo borghese illuminato e illuminista. La rivoluzione diviene un percorso pedagogico, diviene passiva. A guidarla non sarà la coscienza di classe ma uno spirito modernista, potremmo dire materialista e anti platonico: e su questo versante avranno più successo gli highlights che gli approfondimenti. La società delle merci e dei consumi e chi la determinava ne traevano un risultato insperato: andava ad affiancarsi agli sforzi del Pci sia sul piano materiale della modernizzazione delle merci che su quello dei contenuti relativi.

In sostanza la battaglia per l’egemonia finì per favorire il predominio della cultura radicale borghese. Si pensi alla parabola della Repubblica, un quotidiano che finirà per dare la linea ai militanti di sinistra: “La Repubblica: un club esclusivo, ma di massa”, un quotidiano per un pubblico “che teme ossessivamente la vergogna dell’esclusione e del declassamento”, scriveva Berardinelli nel secondo numero di Diario. E la classe operaia del Nord industriale sceglierà in modo consistente di votare primala Lega e poi Grillo.

 

La farsa come volontà e rappresentazione

Fintanto che il Principe/Partito era governato da figure carismatiche, per storia personale e competenze politiche, gli spiriti illuminati, evocati e messi in cattedra, potevano ancora essere disciplinati; ma con il venir meno di quelle figure, una volta che il loro posto venne preso da eredi che si erano formati nella mediocre ma agiata vita di partito, e che avevano avuto la fortuna di non doversi confrontare con dittature e sopravvivere a guerre, quegli spiriti mostrarono tutto il loro potere. Di più: nessuno aveva potuto prevedere lo sviluppo dei media, della televisione in primis (parole e immagini selezionate 24 ore su 24), né lo sviluppo del consumismo (di beni e di opinioni), nonchè di un capitalismo di nuovo tipo che favoriva mode passeggere, pensieri deboli, l’allentamento dei legami condivisi, l’indebolimento dei contenitori sociali.

I maitres a penser, i comunicatori, la farsa, intesa come rappresentazione più efficace del pensiero debole, occuparono progressivamente il centro della scena; le figure emblematiche,immagine di questa trasformazione, da compagni di strada divennero progressivamente i protagonisti. La società di massa a guardare, ascoltare, giudicare indocile. A indirizzare la vita culturale, il modo corretto di pensare saranno artisti, giornalisti e commentatori televisivi, scrittori di media taglia, finanzieri proprietari di media, magnati della televisione; ed un ruolo privilegiato lo avranno i comici: puri che epureranno i politici, anche quelli che avevano fondato il loro programma sulla purezza.

La società di massa richiede una informazione semplificata, facile da comprendere: e i moderni sistemi di comunicazione sono quanto di più adatto. La complessità della politica, le infinite sfumature della realtà sono di difficile rappresentazione e comprensione. E’ più facilmente trasmissibile un messaggio linearmentee costantemente critico, e gli intellettuali sono strutturalmente critici e non costruttivi, perché alla ricerca della possibilità di realizzare, o meglio di identificarsi, in un loro ideale radicato nell’immaginario. Gli intellettuali europei hanno, in epoca moderna, concepito la trasformazione della società e la lotta alle ingiustizie sociali non attraverso graduali riforme, ma mediante la radicale trasformazione dell’ordine esistente: la rivoluzione come unica riforma. Altra cosa è comprendere la realtà, studiarla a fondo per proporre dei cambiamenti, governarli, garantire la legittimità degli atti, rispettare i geni invisibili segnalati da Guglielmo Ferrero (7).

Si entra nell’euro, si esce dall’euro: è troppo faticoso pensare a riforme che salvaguardino gli equilibri europei, tenere a memoria le guerre perenni che hanno martoriato il continente. Non ha più valore accettare la sofferenza, la paura del presente e del futuro: il pensiero radicale è semplice, evita la fatica del pensare, è alla portata di tutti. Internet diviene, in questa direzione, il regno sovrano della democrazia e allo stesso tempo della semplificazione e dell’intolleranza.

E’ interessante e sicuramente utile andare oggi a rileggere un testo di critica letteraria che indicava da un versante marxista tradizionale i limiti e i guasti di una politica culturale che ha promosso il populismo:, mi riferisco al saggio “Scrittori e Popolo” di Alberto Asor Rosa 8. Scriveva Asor Rosa: “ Abbiamo appuntato l’attenzione su quel livello letterario in cui l’esigenza di un rapporto con il popolo diventa scelta ideologica e comporta una nozione precisa e consapevole dei compiti assegnati allo scrittore nel quadro di un ceto dirigente nazionale” (9). Una scelta ideologica dalla quale discendono compiti di direzione politica: una scelta che promuove aldilà del valore artistico, le conseguenze più gravi della quale “sono il rinvio di un fecondo, critico rapporto tra la nostra cultura e la grande cultura del Novecento europeo” (10). L’appartenenza era il solo metro di giudizio, la qualità di nessun conto; e se l’analisi di Asor Rosa è incentrata sulla letteratura italiana, le sue considerazioni sono linearmente estensibili a ogni altra forma di arte.

 

L’abbraccio con Grillo

Va da sé che appartenenza e qualità possono anche incontrarsi (gli Ejzenstejn per fortuna esistono): ma quando non s’incontrano? Sul piano generale quella politica favoriva la mediocrità, lo spirito partigiano: “In nome del popolo e delle sue eterne benemerenze si perdeva per sempre l’occasione di creare una seria, consapevole, critica letteratura del mondo contemporaneo, così come esso è, con i suoi drammi e le sue lacerazioni, le sue angosce e le sue sotterranee potenzialità liberatrici” (11).

In una moderna società di massa ricercare la conquista del potere attraverso l’acquisizione dell’egemonia culturale ha scardinato la teoria e la prassi marxista, ha fatto crescere il ruolo di un ceto intellettuale selezionato per appartenenza, ha annichilito quelli che non si piegavano a tale politica culturale, ha circoscritto il valore all’obbedienza. Ne è conseguita una dittatura culturale di un pensiero debole ma politicamente corretto, facilmente assimilabile, che si è sposato con una esigenza strutturale di mode passeggere, di brand. La tecnologia, i moderni sistemi di comunicazione, hanno portato i comunicatori in presa diretta e permanente con i cittadini: i comunicatori sono divenuti i padroni della scena.

Concludendo questa riflessione e tornando all’episodio da cui sono partito: un ceto intellettuale che fa del giudicare il suo mestiere, la sua ragione di vita, attraverso la parola senza fatti, ma solo come interpretazione, ha tirato giù dal palco chi ce l’aveva portato.E la storia sembra ripetersi: il recente manifesto di maitres à penser contro le proposte di riforma costituzionale del governo Renzi ci ricordano che i comunicatori della sinistra continuano a ritenersi immuni dal contagio della struttura. Sono convinti di poter guidare e salvare una società i cui vertici economici e corporazioni li hanno invece adottati da tempo. E l’appello ai resistenti ad ogni riformismo è stato raccolto dal comico Grillo: un abbraccio che manifesta una identità profonda.

1 J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, Il Mulino, Bologna 1962, pag. 25.
2 A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Edizione Speciale per il Corriere della Sera, Milano 2012.
3 Citazione dai Quaderni dal carcere [pag. 1561] ibidem pag.102.
4 M. Bulgakov, Il Maestro e Margherita, Einaudi, Torino 1967, pag. 344.
5 G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, Feltrinelli, Milano 1991.
6 Del Noce, cit., pag. 58.
7 G. Ferrero, Potere, Sugarco, Milano 1981.
8 A. Asor Rosa, Scrittori e popolo, Samonà e Savelli, Roma 1966.
9 Ibidem pag.4.
10 Ibidem pag. 221.
11 Ibidem pag. 280.