In Italia, mediamente, si vota molto di più che negli altri paesi d’Europa. Ma in Italia, come negli altri paesi d’Europa, si vota sempre di meno. Dobbiamo preoccuparcene? O, per essere più chiari, chi dovrebbe preoccuparsene?
Ai partiti, statene pur certi, la cosa non fa né caldo né freddo. Non mancano mai, dopo ogni tornata elettorale, le geremiadi sulla disaffezione, il discredito della politica, le sue ragioni, il futuro della democrazia e via discorrendo. Ma, passata la settimana di lutto, torna il “business as usual”. In un universo di riferimento in cui gli assenti hanno il torto fondamentale di non esistere.
In questo quadro la polemica contro Renzi, che non rappresenterebbe il 41 ma appena il 23% degli italiani, lascia il tempo che trova. Perché si potrebbe facilmente rispondere che, con lo stesso metro, Grillo è sotto il 15, Berlusconi sotto il 10 e l’opposizione di sinistra sotto il 3%; e perché, al dunque, conta il peso dei consensi veri e non il valore di quelli virtuali.
Pure, di questa disaffezione crescente noi cittadini dovremmo preoccuparci. E non perché infici i verdetti”, ma perché altera profondamente il rapporto tra partiti e politica.
Per capirci qualcosa, partiamo dal paese simbolo dei valori della democrazia liberale. Negli Stati Uniti la percentuale dei votanti tra gli aventi diritto al voto supera il 50% solo nel caso delle presidenziali, mentre per tutti gli altri tipi di elezione siamo a livelli nettamente inferiori a questa soglia. Diciamo che gli americani votano spessissimo ed hanno la possibilità di dire la loro su una grande quantità di problemi (dai referendum propositivi, alla nomina dello sceriffo o del procuratore locale, sino al diritto di revocare il mandato ai loro rappresentanti): ma votano poco.
Un fatto, ecco il punto, considerato assolutamente normale. L’anno scorso i democratici, e noi con loro, hanno esultato per l’elezione di De Blasio a sindaco di New York (la linea del “tax and spend”aveva dunque un futuro…). Ma nessuno, dico nessuno, si è peritato di ricordare che la partecipazione al voto era stata del 25%.
E’ normale per due ragioni. La prima, diciamo così storica, ha a che fare con i rapporti degli americani con la politica. Un rapporto in cui il voto non è un diritto-dovere civico ma una facoltà individuale. Nessuno ti iscrive automaticamente nelle liste elettorali, raggiunta la maggiore età; devi provvedere tu stesso. E, se qualche istituzione o qualche partito (come i repubblicani nel Sud) vuole metterti i bastoni nelle ruote, può farlo. Ancora: l’offerta politica, nella sua forma essenzialmente personale, può interessarti, oppure no, e in quest’ultimo caso nessuno ti getterà la croce addosso: anzi la tua non scelta sarà considerata assolutamente normale. Diciamo di più, preventivata in partenza. A votare sono quelli che hanno cause o interessi da promuovere o da difendere collettivamente. Il che taglia fuori i più deboli, per censo o per razza, la popolazione carceraria o ex carceraria, gli irregolari d’ogni tipo (quelli che, per la stessa ragione, corrono alle urne in paesi come l’India o il Sud Africa). Comunque lo si consideri, un’alterazione della competizione a vantaggio di una delle due parti.
La seconda, diciamo così politica, ha a che fare con l’alterazione nel modo di essere dei partiti. Che si tratti di democratici oppure di repubblicani (nel già citato contesto di scarsa partecipazione al voto), per vincere la competizione non è affatto necessario convincere gli incerti – o per meglio dire i cittadini in generale – su temi di carattere generale: è piuttosto necessario e sufficiente mobilitare i propri specifici sostenitori su specifiche parole d’ordine. In un contesto in cui la demonizzazione dell’avversario è l’argomento decisivo per l’identificazione della propria Causa.
E’ il campo per le lobby organizzate e i vari gruppi ultrà (rappresentati di interessi e soprattutto di passioni collettive). Non è quanto basta per vincere (quasi sempre nelle competizioni senatoriali, sempre in quelle presidenziali, l’estremismo non paga). Ma è quanto basta e avanza per paralizzare e inquinare i processi di decisione: e a qualsiasi livello.
Una situazione- quella dell’astensionismo strutturale di massa – che i protagonisti del bipolarismo vivono comunque senza problemi. E che anzi tendono ad alimentare. Da una parte la destra, ostacolando in ogni modo le nuove iscrizioni sul registro degli elettori. Dall’altra, tutti insieme appassionatamente, ritagliando i collegi (quelli della Camera) in modo tale da blindare le maggioranze uscenti. In tal modo gli elettori sono in grado di conoscere – non la sera delle elezioni, ma settimane prima – il nome del vincitore nel loro collegio; il che non li incoraggia a votare, anzi.
In tutto questo, attenzione, non c’è alcun riferimento alla situazione italiana. E se ci fosse sarebbe casuale. E, se proprio fossimo tirati per i capelli ad affrontare l’argomento, a cercare la morale della favola, ci limiteremmo a dire che i nostri “costruttori di sistemi” dovrebbero attribuire una qualche importanza anche alla necessità non dico di scoraggiare l’astensionismo ma almeno di non promuoverlo.
Se si avrà la bontà di perdere del tempo sul contributo “dove è la vittoria”, si potrà riscontrare come il calo della affluenza alle urne del 2014, è stato repentino e significativo. Quindi i dati dell’estensione rilevati nel 2014 sono assolutamente singolari per la nostra storia politica (ed infatti questo anno non si sono tenute – per ora – elezioni politiche). Per quanto riguardo la “polemica” che lascerebbe il tempo che trova: si tratta di fare i conti a chi, con un fittizio 40%, vuole imporre una riforma costituzionale, per la quale è previsto – almeno finché vige la Costituzione del 1947 – un largo concorso delle diverse forze politiche. In conclusione, il confronto con altre vittorie, di altre forze politiche, e persino della lista – collegamento di collegi uninominali dell’Ulivo guidate da Prodi e Veltroni, mostra la minorità della vittoria di Renzi, quando rapportata agli aventi diritto al voto.
Una precisazione: sugli aventi diritto al voto, il PD, nel 2014, ha conseguito soltanto il 22,68%, che certamente è superiore al 18,43% del 2013, ma che è però inferiore sia la 25,28% del 2006, sia al 29,57% del 1996.
Una ulteriore precisazione va fatta sull’evidente comparazione, nella consistenza reale del suffragio raccolto, tra soggetti politici omologhi. La scelta, anche per le elezioni del 1996 (in cui, nel recupero proporzionale, erano pur presenti le singole liste di PDS, POP-SVP-PRI-UD-PRODI, RINNOVAMENTO IT-DINI, FED.DEI VERDI, ecc.) di considerare come termine di comparazione politica esclusivamente l’Ulivo, si giustifica con la stessa genesi politica del PD. Ciò non vuole disconoscere il contributo diverso di soggetti diversi sia nell’Ulivo, sia nel PD. A conferma della giustezza di questa impostazione, comunque, valga la considerazione che nelle elezioni del 2006 l’Ulivo aveva una sua lista che concorreva alla candidatura di Prodi, insieme ad altre liste diverse, che chiaramente non vengono considerate nella comparazione.
La “casta” è al lavoro proprio per far votare il minor numero di elettori. Le leggi elettorali che si sono inventate in questi anni servono allo scopo. Non sento, purtroppo, nessuna aria di ribellione a quest’altra porcata dell’italicum.