Non stiamo parlando di un calciatore, ma di un politico brasiliano di oltre mezzo secolo fa. Di un signore che, nel corso di un’accesa campagna elettorale, ebbe a definire sé stesso uno che “ruba ma realizza” ( “rouba ma faz”). Attenzione: con si trattava di una dichiarazione spontanea fatta in sede giudiziaria; e nemmeno di una sorta di confessione pubblica, con annesso tentativo di giustificazione. Quello che il Nostro intendeva dire, rivolgendosi agli elettori, era semplicemente questo: “Ammesso e non concesso che io abbia rubato ( cosa che non mi è stata contestata in sede penale e che, nel caso, può essere considerata pratica corrente), voi non mi dovete giudicare, in sede politica, per la mia moralità ma per la mia efficienza; insomma non per le mie, eventuali, deficienze individuali ma per la mia capacità di venire incontro ai vostri bisogni collettivi”.
Un’asserzione veridica? Non lo sappiamo. Come non sappiamo nulla dell’uomo, dei suoi trascorsi e dei suoi percorsi successivi. Pensiamo, comunque, che il suo nome debba essere ricordato per quella semplice battuta destinata a illuminare il dibattito politico allora e nei decenni a venire.
Adhemar non posa a immoralista. Né rivendica, preventivamente, franchigie o immunità. Se incapperà in un processo, si difenderà con tutti i mezzi a disposizione: sempre però considerando l’evento come un rischio connesso al mestiere, e senza scandalizzarsene. A lui interessa rivendicare, nel mondo della politica, un principio base: che chi la pratica va giudicato dalla gente non in base alla sua moralità privata e/o pubblica – o, più esattamente, non solo in base a questa – ma anche, e soprattutto, in base alla qualità e ai risultati delle sue azioni.
Impostazione, in linea generale, corretta. I notabili della destra piemontese erano, in tutti i sensi, più probi e meno spregiudicati di Cavour; Catone Uticense più virtuoso dell’affarista Giulio Cesare; gli spartani migliori degli ateniesi; e, per venire ai giorni nostri, Ahmadinejad meno corrotto di Rafsanjani, e Bush padre e figlio più morigerati di Kennedy e di Clinton. Ma con il senno di allora e del poi nessuno potrebbe considerarli, per questo, più adatti alla gestione della cosa pubblica. Così come, con il definitivo affermarsi della democrazia come orizzonte naturale dell’agire politico, è per nostra fortuna totalmente scomparso il tossico mito di Sparta.
Naturalmente, il nostro Adhemar non era per nulla qualificato a porre il problema (e per la verità non era nemmeno cosciente di porlo). In giro non c’erano né Cesare né Catone, ma un politicante locale in lizza con altri nel medesimo eterno esercizio del voto di scambio: opere pubbliche da appaltare, amici e poveri cristi da sistemare. Pure, con l’andare del tempo, il suo quesito ha acquistato sempre maggiore importanza, sino a portare a risposte sempre più radicalmente divergenti. Così stiamo assistendo, proprio nel nostro paese, ad una magistratura che sequestra la politica in nome di una supposta titolarità nella preservazione della virtù. E per converso a politici che rivendicano l’impunità in nome del consenso ricevuto.
Ma non c’è da stupirsene. Il nostro è un paese di confine. Lo era una volta tra Est e Ovest. Lo è oggi tra Nord e Sud. O più esattamente tra regimi di antica democrazia in cui il fattore decisivo nel giudizio sui politici è il “non rubare”; e paesi emergenti in cui pesa in modo determinante il “fare”. Così in Germania si è squalificati per avere copiato in parte una tesi di laurea, mentre i Parlamenti, centrali e locali, dell’Unione indiana sono popolati da pregiudicati (anche per reati di sangue). Così, nel nostro vecchio mondo, variamente egemonizzato dai ceti medi “sensibili”, la gente non si attende poi tanto dalla politica, ed è quindi molto attenta ai comportamenti privati e pubblici di chi la pratica. Mentre, nelle democrazie dominate dalle attese dei poveri, alla politica si chiede tutto, sino a chiudere un occhio di fronte ai comportamenti di coloro che sono chiamati a soddisfare queste attese.
Oggi, però, in India come in Brasile, in Thailandia come in Messico, il clima sta cambiando. Nel senso di una attenzione assai maggiore al “come” rispetto al “che cosa”; o, più esattamente, al corretto esercizio della politica come premessa necessaria per il raggiungimento delle sue finalità.
C’è solo da sperare, allora, che l’oscillazione si fermi al punto giusto; così da consacrare all’oblio lo slogan del nostro Adhemar; ma non la natura dei problemi che poneva.
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