L’articolo di Matteo Muzio che di seguito pubblichiamo è comparso sulla rivista on line Strade il 27 marzo 2015
“Io a Milano ci vivo. Vuole che mi metta contro i socialisti?” Così dice, nella serie 1992 in onda in questi giorni su Sky, la moglie di uno degli imprenditori accusati di corruzione.
Nella stessa città dove imprenditori, creativi, pubblicitari e persone comuni si genuflettevano allo strapotere socialista, un anno dopo l’arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, imperversavano le manifestazioni di sostegno popolare ad Antonio Di Pietro e al pool di Mani Pulite, affidatari, si riteneva, del compito di ripulire ogni sconcezza messa in atto da una classe politica inetta e parassitaria. Cos’era accaduto, nel mentre? La serie tv di Sky Atlantic prova a dare una risposta a tutto questo.
Non ho le competenze necessarie per esprimermi su regia, sceneggiatura e dialoghi; sul periodo storico, però, si può tentare un piccolo bilancio, facendo subito pulizia delle due opposte tifoserie.
La prima è quella tradizionale, il pool come un gruppo di indomiti che spazza via la corruzione e il malaffare a colpi di inchieste; in questa lettura, gli unici errori commessi sarebbero una (supposta) eccessiva cautela e il fatto di non aver portato a termine il “lavoro”, magari con un governo tecnico presieduto da un giudice.
La seconda è invece quella revisionista. Una classe politica di statisti di immensa preparazione e coraggio viene spazzata via da un golpe giudiziario portato a termine dagli emissari di un non meglio definito complotto. Voluto da chi? Dal Pci (tenderei ad escluderlo, dato che la corrente migliorista fece parte della giunta milanese di Pillitteri dal 1987 al 1992), dagli americani scontenti del caso Sigonella (dimenticando che Craxi fu per anni un alleato affidabile dell’America, ai tempi dell’installazione dei missili a Comiso) o dalla nascente Unione Europea? Non è dato saperlo. Sta di fatto che a questo presunto golpe sarebbero seguiti l’ormai onnipresente “cessione di sovranità” e un “impoverimento” voluto da questa elite malvagia.
La verità storica, senza pretendere di dare bilanci definitivi, probabilmente sta nel mezzo. La classe politica discesa per cooptazione da quella che fece la Resistenza era al capolinea. I padri della Patria avevano già da tempo lasciato la scena a faccendieri più o meno loschi. E i partiti, nella loro lotta per l’egemonia, soffocavano l’economia reale, imbrigliandola in una rete di regolamenti ambigui a cui spesso molti imprenditori preferivano non sottostare, aggirandoli con una tangente, magari anche di dimensioni modeste.
La classe politica, con la formula del Pentapartito, aveva praticamente isolato ogni forma di dissenso possibile, dato che a livello locale i socialisti non disdegnavano talvolta di allearsi con i comunisti, come nel caso delle giunte rosso-verdi di Milano e Genova.
Ciò detto, Mani Pulite fu tutt’altro che una specchiata operazione di pulizia morale. Fu, piuttosto, l’ennesima salita sul carro del vincitore da parte di chi, magari fino a poco tempo prima, non disdegnava di chiedere un favore al parente o all’amico politico. Se rivoluzione c’è stata, bisogna ammettere che non ha mai avuto obiettivi precisi, se non la “caccia al cinghiale”, come viene definita dal personaggio di Di Pietro nella prima puntata della serie.
Più che un fenomeno politico, Tangentopoli fu essa stessa, possiamo dire, un fenomeno mediatico, una spettacolare ordalia in cui spesso i diritti dei carcerati, così come il garantismo nei confronti dei presunti innocenti, venivano sacrificati alla logica del “the show must go on” e del moralismo da Far West. Il sistema mediatico che fino a un minuto prima incensava le doti salvifiche e il decisionismo di Craxi ribaltò il giudizio, condannandolo come unico, o almeno principale, responsabile di ogni male.
In questo quadro, la serie di Sky Atlantic potrebbe essere definita quasi una “meta-serie”, una ricostruzione televisiva di un fenomeno che già al suo apparire era essenzialmente una questione d’immagine e di visibilità, di una fiction politico-giudiziaria i cui effetti nella realtà stanno ancora generando mostri.
Quindi, come conciliare queste due realtà? In nessun modo. Queste due Italie erano entrambe reali. I consulenti politici americani Whitaker & Baxter, pionieri del political consulting nella California anni ’50, dicevano “You can’t beat something with nothing”. E il “qualcosa”, seppur malato e distorto, della corruzione craxiana certo non poteva essere rimpiazzato dal nulla arrembante del moralismo giustizialista.
Un ottimo spunto pop per ragionare sulla politica, anche oltre il pop. Se Mani Pulite è stata “l’ennesima salita sul carro del vincitore” ed essa “già al suo apparire era essenzialmente una questione di immagine e di visibilità” – “più che un fenomeno politico, possiamo dire un fenomeno mediatico” – questa fiction (ri)propone due domande anche ai cultori della “politica-pop”:
– Tangentopoli ha insediato “il vincitore” oppure ha creato le condizioni perché uno o più vincitori si affermassero sul mercato politico? e,
– se i media hanno avuto ruolo nella sua genesi, quale è stata la loro parte nella vita e nei caratteri concreti della seconda repubblica oggi allo sfascio – nella politica come nella società e nell’intreccio fra politica e società, nei mestieri e nei ruoli professionali (anche loro propri), e nei rapporti e nelle strutture economiche, funzioni pubbliche e istituzioni?
C’è materia per gli storici, pop e non, ma anche per i cronisti che nel 2013 hanno dovuto constatare che i media italiani non avevano colto neppure le avvisaglie del tracollo elettorale dei pilastri di destra e di sinistra del sistema politico, abbandonati da quasi dieci milioni dei loro elettori (mentre le astensioni sfioravano i 13 milioni). Diversamente da vent’anni fa, sorpresi i media, non meno dei partiti: vale a dire gli editori, i direttori, i capiredattori, i commentatori, i cronisti e non pochi dei loro collaboratori.
Ma “gli editori, i direttori, i capiredattori, i commentatori, i cronisti e non pochi dei collaboratori” sono gli stessi di vent’anni fa: al massimo hanno cambiato testata. Non ci sono neanche “pentiti”: l’unico è stato Piero Sansonetti, che proprio su Mondoperaio (gennaio 2010) ha ricordato che nel 1993, da caporedattore dell’Unità, fu costretto a togliere di pagina un articolo accomodante sul decreto Conso dopo il quotidiano scambio d’opinioni fra il suo direttore e i colleghi del Corriere, della Stampa e della Repubblica, determinando così il successivo pronunciamento dei pm della Procura di Milano al quale si adeguò Scalfaro rifiutandosi di firmare il decreto. Come può vedere Spada, c’è ancora tanta materia non solo per gli storici, ma anche per i cronisti. Quanto agli storici, potrebbero assumere il 1992 (quello vero, non quello della fiction) come case study del primo (e finora ineguagliato) esempio di cambio di regime interamente determinato dal circo mediatico-giudiziario: con l’aggravante che mentre all’apparato giudiziario è toccata (com’è ovvio) la pars destruens, alla pars construens ha provveduto esclusivamente l’apparato mediatico, inventando schieramenti, leadership e culture politiche d’accatto.
Soltanto due parole: come mai ha pagato solo Bettino Craxi, gli altri dove erano vivevano come extraterrestri sulla luna, e come mai dopo oltre vent’anni ogni tanto si ritorna sul capitolo tangentopoli, forse qualcuno si è accorto negli anni che non ha agito bene, speriamo che almeno la storia dia ragione a Bettino e ai Craxiani!