Leggendo una delle tante biografie che esistono sul grande Pietro Nenni (quella scritta da Guido Gerosa1 aveva in particolare catturato la mia attenzione), ho potuto per la prima volta approfondire quanto accaduto ad Ancona nel 1914 la domenica del 7 giugno: l’inizio della famosa “settimana rossa”. Un’ondata di proteste e di disordini di proporzioni raramente viste fino ad allora che ebbe in questa città delle Marche il proprio epicentro. Ancona fu la prima a ribellarsi, a cacciare le forze armate regie, e addirittura a proclamare la “Repubblica sociale”, dando il la a moltissime altre città del Regno d’Italia. In un teatro simile i più grandi esponenti del movimento proletario e rivoluzionario italiano erano lì: Benito Mussolini per i socialisti, Pietro Nenni per i repubblicani, ed Errico Malatesta per gli anarchici.
Malatesta. Un personaggio che non avevo mai sentito nominare prima, descritto come una leggenda: sereno, disteso con la pipa alla Camera del Lavoro, mentre fuori era stata proclamata la Commune proprio da quegli anarchici che lui guidava, e che dicevano: “Noi la rivoluzione l’abbiamo fatta e abbiamo proclamato la Repubblica sociale. Ora aspettiamo che i socialisti italiani facciano il loro dovere. Se non lo faranno saranno dei traditori che un giorno pagheranno il fio. Occasione più propizia di questa per abbattere la monarchia e rovesciare il regime borghese non era mai maturata. Soltanto noi anarchici siamo uomini di azione. Siamo sereni perché abbiamo le coscienze tranquille. La mia decisione è una sola: resistere fino in fondo e in caso di sconfitta riprendere la via dell’esilio”. Un’affermazione che farebbe riflettere a lungo qualsiasi appassionato di storia, e che a me personalmente ha destato una morbosa curiosità per un uomo tanto profetico.
Otto giorni di resistenza contro i centomila uomini mandati da un Re furente ovviamente non bastarono: ma questa pesante sconfitta non indusse Malatesta ad arrendersi, né gli impedì di dedicare tutta la sua vita ad un’ideale: come un eroe romantico del quale la storia e le gesta appassionano i giovani più assetati di avventure. Nato nel 1853 a Santa Maria Maggiore, vicino a Caserta, faceva parte di una famiglia nobile molto ricca, appartenente probabilmente ad un ramo meridionale della famosa casata dei Malatesta di Romagna. Messo però da parte il proprio ruolo sociale e gli studi di medicina, fu inizialmente un fervente militante repubblicano. E’ a questo periodo che risalgono i suoi primi attriti con le autorità regie: come quando venne convocato dalla questura di Napoli a causa di una lettera di carattere sovversivo da lui scritta a Vittorio Emanuele II; oppure quando venne arrestato non ancora diciottenne a seguito di una sommossa organizzata da un circolo studentesco repubblicano dell’Università di Napoli. Fu il primo di una lunghissima serie di arresti, che però lo videro per il resto della sua vita definitivamente anarchico, diventato tale dopo i fatti della Comune di Parigi del 1871.
Da qui egli iniziò un periodo di peregrinazioni in tutto il mondo che non ebbe mai fine, quasi sempre a scopo politico: fu in Egitto, dove prese parte alla rivolta guidata da Arabi Pasha contro la dominazione inglese; fu in Siria, in Romania e in Argentina: l’ideale anarchico che aveva abbracciato con incredibile amore e devozione lo spingeva ovunque ci fosse bisogno di lui. In particolare sono da ricordare due episodi di questo periodo: il primo a Parigi, il secondo a Londra.
A Parigi Malatesta conobbe la principessa Maria Sofia: originaria della Baviera, aveva sposato “l’ultimo dei Borboni”, il re Francesco II delle Due Sicilie, spodestato dai suoi domini in seguito all’annessione al Regno d’Italia. Maria Sofia fu conosciuta da tutti in quel periodo come la “Regina degli anarchici”. Le sue non nascoste inclinazioni verso l’idea anarchica e gli anarchici erano note a moltissimi rivoluzionari dell’epoca, ed in particolare a Malatesta. In realtà si sa quasi con certezza, e non senza una certa punta di ironia, che la principessa Maria Sofia si diceva simpatizzante “anarchica” solo per egoistica convenienza: infatti ciò che desiderava era che i disordini causati dal proletariato in Italia – disordini dei quali erano gli anarchici i primi fautori – indebolissero il dominio rivale degli odiati Savoia in favore di un ritorno al potere della casata borbonica.
“Noi soffriamo vedendo soffrire e non sapremmo esser felici se non circondati da uomini felici; ma la forza che ci sostiene e sospinge resta l’amore per gli uomini”
A Londra invece Malatesta stette per diverso tempo e più volte nel corso della sua vita: del resto Londra era e sarà per anni e anni la capitale dei rivoluzionari di tutto il mondo. Qui guadagnò ben presto la profonda stima di tutto il proletariato londinese: tanto che, si racconta, quando una serie di sommosse da lui organizzate lo portarono in tribunale. e alla condanna a tre mesi di carcere si accompagnò un decreto d’espulsione, quest’ultimo fu annullato in seguito ad una imponente manifestazione popolare in sua difesa.
Non dobbiamo stupircene, se consideriamo la profonda bontà di quest’uomo, riconosciuta da tutti coloro che lo frequentavano: tutte le sue ricchezze le vendette in favore di poveri e di compagni, e da quel momento rimase poverissimo per tutta la vita. Sempre a Londra ad esempio, raccontano che aveva un lavoro come venditore di merendine: si avvicinò un bambino povero chiedendo l’elemosina, e lui subito gliene regalò una; a quel punto fu raggiunto da una folla di bambini nella stessa condizione, e Malatesta senza fare una piega regalò tutto ciò che aveva. Inutile dire che un tale lavoro evidentemente non era fatto per lui, che infatti lo cambiò.
Tale bontà si manifestava ovviamente anche nel suo modo di concepire l’anarchia: tanto che il suo si può definire “anarchismo dal volto umano”. Alla base di esso infatti sta un sentimento di profondo amore verso l’uomo, e di sofferenza nel vederlo oppresso: “Noi soffriamo vedendo soffrire e non sapremmo esser felici se non circondati da uomini felici; ma la forza che ci sostiene e sospinge resta l’amore per gli uomini; l’ insofferenza della oppressione, il desiderio di essere libero o di poter espandere la propria personalità in tutta la sua potenza non basta a fare l’anarchico; quell’aspirazione all’illimitata libertà, se non è contemperata dall’amore degli uomini e dal desiderio che tutti gli altri abbiano eguale libertà, può far dei ribelli, ma non basta a fare degli anarchici: l’anarchico per essere tale deve avere scelto tra l’odio e l’amore, tra la lotta fratricida e la cooperazione fraterna, fra l’egoismo e l’altruismo”. Sono parole arrivate fino a noi grazie alla preziosa opera di Luigi Fabbri2, suo amico e compagno, il quale ci ha lasciato un patrimonio di citazioni e di fatti che contribuiscono a descrivere il famoso anarchico, che nella sua intensa attività rivoluzionaria non ebbe mai modo né volontà di scrivere una propria autobiografia.
Da queste parole, che descrivono più di tutte il suo modo di intendere l’anarchia, deriva la sua concezione di “ideale al servizio dell’uomo”: l’idea che nasce per amore di esso e che ha come obiettivo quello di liberarlo dalle sofferenze e di salvarlo: “Io darei tutti i principii per salvare un uomo! Se per vincere si dovesse elevare la forca nelle piazze, preferirei perdere!” . Queste non sono solo belle frasi, ma costituiscono una forte risposta ad una diffusa tendenza, nel corso dell’800 e del 900, a dare la precedenza a principi che – pur essendo puramente politici – si basavano su complesse basi filosofiche e scientifiche dalle quali non si poteva prescindere, e che dovevano quindi riflettere una realtà delle cose che spesso poi si rivelava ben diversa (positivismo, giusnaturalismo, materialismo storico etc.): correnti intellettuali complesse che non nascevano dal semplice quanto prezioso “amore per l’uomo”, né tantomeno per servirlo.
Malatesta si definiva sia socialista che comunista anarchico: socialista perché per lui socialisti erano tutti coloro che vogliono che la ricchezza sociale serva a tutti gli uomini e vogliono che non vi siano più proprietari e proletari, ricchi e poveri, padroni e sottoposti; e comunista perché il “vero comunismo non è possibile che in anarchia”. Egli infatti propugnava un sistema in cui, abolita la proprietà privata, la comunanza di risorse permettesse davvero la massima libertà di ogni individuo, poiché sarebbero state distribuite “ad ognuno secondo i suoi bisogni”: che assomiglia per certi aspetti alla “futura società comunista” delineata da Marx, senza però il passaggio della dittatura del proletariato, passaggio inconcepibile per Malatesta, il quale diceva spesso che “i mezzi condizionano i fini”, per cui “per la libertà ci si deve battere con strumenti che siano già in se stessi la libertà. E’ l’esperienza del vivere che ci mostra sempre l’oppressione nascere dall’oppressione”.
Il suo concetto di anarchia è racchiuso in una serie di principi che nel 1920 presentò al secondo congresso dell’Unione anarchica italiana a Bologna, il quale li approvò all’unanimità: abolizione della proprietà privata della terra, delle materie prime e degli strumenti di lavoro, perché nessuno abbia il mezzo di vivere sfruttando il lavoro altrui e tutti, avendo garantiti i mezzi per produrre e vivere, siano veramente indipendenti e possano associarsi agli altri liberamente per l’interesse comune e conformemente alle proprie simpatie; abolizione del governo e di ogni potere che faccia la legge e la imponga agli altri (e di qualsiasi istituzione dotata di mezzi coercitivi); organizzazione della vita sociale per opera di libere associazioni e federazioni di produttori e di consumatori, fatte e modificate secondo la volontà dei componenti, guidati dalla scienza e dall’esperienza, e liberi da ogni imposizione che non derivi dalle necessità naturali a cui ognuno, volontariamente si sottomette; garantiti i mezzi di vita, di sviluppo, di benessere ai fanciulli ed a tutti coloro che sono impotenti a provvedere a loro stessi; guerra alle religioni e alle menzogne, anche se si nascondono sotto il manto della scienza, ed istruzione scientifica per tutti fino ai suoi gradi più elevati; guerra alle rivalità e ai pregiudizi patriottici, abolizione delle frontiere, fratellanza fra tutti i popoli; ricostruzione della famiglia in quel modo che risulterà dalla pratica dell’amore, libero da ogni vincolo legale, da ogni oppressione economica o fisica, da ogni pregiudizio religioso.
Malatesta vedeva nel programma anarchico un complesso di scopi da raggiungere del tutto indipendente da qualsiasi apriorismo dottrinario, sia scientifico che filosofico
Come si raggiunge tutto ciò? Con la rivoluzione e la volontà. La rivoluzione inevitabilmente sarà armata. Malatesta infatti non esclude che ci possano essere dei miglioramenti di condizioni per la classe operaia, concesse dalla borghesia od ottenute con la protesta: ma è fermamente convinto che vi è un limite oltre il quale il potere non può che reprimere con la forza il movimento del proletariato verso la propria completa emancipazione. Allora la violenza e la rivoluzione armata diventano una difesa legittima. Inoltre degna di nota è la sua concezione di “minoranza anarchica”: con la consapevolezza che le masse non potranno diventare tutte completamente anarchiche, poiché egli riconosce una “difficoltà” dell’anarchia ad essere concepita da tutti, egli è convinto del ruolo che una minoranza di anarchici decisi e ben preparati può avere nell’indirizzare il movimento del popolo nei momenti in cui è in lotta: come dei cani pastore che spingono il gregge dove vogliono loro.
La volontà invece è il punto cardine dell’anarchismo malatestiano. A differenza di tutti gli altri, Malatesta vedeva nel programma anarchico un complesso di scopi da raggiungere del tutto indipendente da qualsiasi apriorismo dottrinario, sia scientifico che filosofico. Egli respingeva tanto il giusnaturalismo quanto il positivismo dell’ottocento: l’anarchia per lui è solo il fine pratico che gli anarchici si propongono di raggiungere con le proprie forze e con la propria volontà. La sua è quindi una concezione volontaristica del tutto opposta a quella deterministica, la quale concepisce la rivoluzione come qualcosa di fatale e d’inevitabile, determinata da precisi movimenti reali della storia che si possono scientificamente individuare e prevedere.
«A me non appartiene né il merito di aver scoperto l’esistenza delle classi nella società moderna né quello di aver scoperto la lotta tra di esse […] Quel che io ho fatto di nuovo è stato di dimostrare: 1. che l’esistenza delle classi è soltanto legata a determinate fasi di sviluppo storico della produzione; 2. che la lotta di classe necessariamente conduce alla dittatura del proletariato; 3. che questa dittatura stessa costituisce soltanto il passaggio alla soppressione di tutte le classi e a una società senza classi»: sono le parole di Karl Marx in una famosa lettera scritta nel 1852 a Weydemeyer, suo caro amico e a quel tempo già pioniere del socialismo marxista negli Stati Uniti d’America. Tale concezione marxiana si completa poi con ciò che Marx affermò nella prefazione a Per la critica dell’economia politica: «Non è la coscienza degli uomini che determina la loro vita, ma le condizioni della loro vita che ne determinano la coscienza». In Malatesta tutto questo non esiste: l’anarchia sarà realizzabile solo in quanto e nella misura in cui gli uomini lo vorranno: “La redenzione umana non può essere che un’opera di volontà: la volontà di coloro che questa redenzione la desiderano”.
La parola “volontà” sintetizza bene il concetto di una società anarchica, la quale non può essere che “una società di uomini volontariamente cooperanti al bene di tutti”. Volontà contro determinismo, quindi, per fare la rivoluzione che cambia la storia: una storia che o segue un corso degli eventi deciso dagli uomini secondo la loro volontà, o è determinata da una serie di forze che gli uomini non possono del tutto controllare. Nel corso del ‘900 si sono letteralmente combattuti – dalle pagine dei giornali fino ai campi di battaglia – gli ideali più vari: visioni del mondo diverse, rivoluzioni che avevano come obiettivo il cambiamento radicale. A distanza di anni, cosa è rimasto? Chi è riuscito nel proprio intento? Rimangono certo storie di eroi che appassionano, che proiettano su noi l’ombra della loro grandezza. Ma, sentimenti a parte, credo che a questo punto della storia una riflessione globale su quanto avvenuto nel secolo scorso vada fatta, per chiedersi se la storia la fa l’uomo, o essa segue un corso degli eventi che noi non possiamo modificare.
Ragionando con ordine, possiamo analizzare tantissimi fatti storici “rivoluzionari”, ma forse nessuno supera per grandezza e importanza quello da cui nacque l’Urss. Una rivoluzione proletaria che ha consacrato per decenni la “santità” del marxismo, seppur avvenuta in un paese con una situazione del tutto contraria a quella che il determinista Marx aveva prefigurato: in un paese agricolo molto arretrato, e non dalle contraddizioni dialettiche del capitalismo di un paese industrializzato. Chi afferma con sicurezza che evidentemente Marx si era completamente sbagliato in questa e in molte altre cose, deve far fronte agli argomenti di chi afferma che l’Unione sovietica è stato il più grande esempio di “tradimento di una rivoluzione”, in quanto il risultato è stato solo “un falso comunismo da caserma”, per dirla con le parole di Malatesta: il quale molto tempo prima, in polemica con i comunisti, aveva incredibilmente profetizzato una tale fine a quelle rivoluzioni che non si servono degli strumenti della libertà.
Una cosa che oggi è chiara a (quasi) tutti: ma a molti lo era anche allora, tanto da poterci creare sopra una favola. Il riferimento è certamente alla Fattoria degli animali di George Orwell: un’allegoria incredibilmente verosimile ai fatti reali che descrive fatti e dinamiche complesse di ciò che fu l’Urss. Una rivoluzione messa a nudo e descritta con maestria dalla penna di uno dei più grandi scrittori e visionari del mondo. A fairy story, una favola degna dei migliori capolavori di Erodoto, che è in realtà la critica più pungente mai fatta ai sovietici e a Stalin soprattutto, personificato nel racconto da un maiale di nome Napoleone. Un libro che ci permette di considerare, con una lettura divertente e scorrevole, la globalità di quanto accaduto in quegli anni, per poterne trarre un insegnamento importante.
Per Orwell tale insegnamento era che il potere corrompe gli uomini, ed è stata questa sete di potere a corrompere l’animo di alcuni animali rivoluzionari e a portare una orribile dittatura che poi ha tradito di fatto la rivoluzione. Certamente vero, e lo dicevano anche Malatesta e moltissimi altri. Ma da questa storia si può capire altro? Si può, sempre considerando il buon Erodoto, apprendere qualche altro utile proverbio? Per esempio ci si può chiedere: ma la rivoluzione è fallita perché mancava la volontà malatestiana oppure perché non causata da un determinismo marxista? Si nota nella lettura una incredibile scorrevolezza nel susseguirsi dei fatti: una rivoluzione che accade con le migliori intenzioni, ma che lentamente declina in maniera più che razionale a conseguenza delle nuove esigenze e situazioni alle quali gli animali della fattoria si trovavano a far fronte. Non ci si accorge veramente da quale punto le cose hanno iniziato a peggiorare, o in quale situazione si poteva agire diversamente.
Tutto è chiaro e cristallino, e al declino lento delle cose ci si convince sempre che la soluzione presa dagli animali, di fronte ai fatti che si presentano, è la migliore perché effettivamente meno peggio di quella contraria, che farebbe “fallire la rivoluzione”, prospettiva più volte indicata come il male assoluto: fino a che il declino raggiunge il punto di non ritorno, e la rivoluzione è come se non ci fosse mai stata. Forse la volontà dei maiali “traditori e assetati di potere” è stata più forte di quella degli altri, che non sono stati capaci con la loro volontà di opporsi; oppure tutto era già determinato da un corso degli eventi che nessuno avrebbe potuto cambiare perché le dinamiche di quella storia erano estranee alla volontà degli animali. Un dibattito non da poco, ma che se affrontato offrirebbe molte prospettive e una visione diversa della storia del ‘900.
Circola da tempo su Internet l’immagine del Quarto Stato “girato”, dove la folla è rivolta con la schiena verso chi guarda
In un dibattito simile è intervenuto in passato un autorevole autore greco dell’età imperiale, Polibio, che ci dà qualche altro strumento per capire meglio. Egli in sostanza considera la storia come un eterno ritorno: un concetto che nell’antichità è molto diffuso, e che tornerà fino ad arrivare a Nietzsche. Una visione della storia ciclica, e che quindi ritorna eternamente al suo stato iniziale. Polibio in particolare, che della storia considera l’aspetto a suo dire più importante e fondamentale (quello militare e politico), considera la storia come un eterno ciclo di costituzioni diverse che degenerando portano a quella successiva e così via. E così la monarchia diventa tirannide, che viene poi rovesciata e diventa un governo di pochi ma migliori che poi degenera in una bieca oligarchia, la quale viene rovesciata in una democrazia dove governa il popolo, che però a causa degli assetati di potere (per voler riprendere Orwell) si trasforma in un governo di spietati demagoghi, e la democrazia diventa una sterile dittatura della maggioranza: da qui una sola persona tornerà a prendere il potere, ed il ciclo riinizia.
Polibio stesso fa poi le dovute considerazioni, e nel caso delle “costituzioni miste” individua in quella romana un esempio di costituzione formata da aspetti appartenenti a tutte e tre le principali: ciò rende uno Stato molto più stabile, ma non perfetto, poiché anche in questo caso il declino giungerà, seppur in maniera molto più lenta, a far ritornare il ciclo dall’inizio. Ma in Polibio c’è anche dell’altro, ed è la “sorte” o “fortuna”: una sorta di divinità laica dai caratteri spesso ambigui e contrastanti, a volte stoicamente provvidenziale all’uomo, a volte incomprensibilmente avversa, che «si diverte con noi come con dei bambini». Insomma: tra chi afferma che la storia ha un proprio corso degli eventi imprescindibile, e chi crede che possa essere forgiata dalla ferma volontà dell’uomo, arriva la sorte: come quasi a voler dire che in ogni caso le cose non avvengono come l’uomo vuole o come crede debbano avvenire. Un aspetto che invita in un certo senso a non addentrarsi più in questa questione, poiché effettivamente non si arriverà mai definitivamente ad una risposta.
Il dibattito è aperto, ma ad una conclusione intanto si può arrivare. La rivoluzione, per tutte quelle ideologie che si sono combattute nel secolo scorso, diviene un concetto molto più ampio: il cambiamento (definitivo!) del sistema. E allora ci vengono in aiuto le parole di De Gasperi, poco conosciute, ma riportate nella sopracitata biografia di Nenni: “Per fermare una rivoluzione occorre tenerne in vita la cultura rivoluzionaria, ma fermarne il moto”. Oggi cosa rimane di quelle ideologie? La cultura, tanta cultura: ma il moto è sopito da tempo. Provate a fare una passeggiata a Bologna il primo maggio: in cento metri vi verranno dati almeno dieci volantini di organizzazioni e partiti che si rifanno in un modo o nell’altro a rivoluzioni più o meno pacifiche. Una fiera di slogan vecchi e nuovi, di magliette di Che Guevara e pugni alzati, di ferme volontà di combattere la borghesia, e di cambiare il sistema come volevano personaggi di altri tempi. Cultura, solo cultura e nulla più: tutto è fermo, da molto tempo. Magari qualche socialista potrebbe fare un respiro di sollievo, perché finalmente si è fermato il comunismo rivoluzionario: ma invece dovrebbe considerare che anche il socialismo riformista è fermo.
Il riformismo vero è una rivoluzione: che cambia il sistema in modo pacifico, che doma la natura obbedendo alle sue leggi, per dirla come Turati. Riformismo è scegliere un obiettivo, tracciare la rotta e iniziare il cammino. Oggi l’obiettivo dei socialisti non sembra essere il cambiamento, ma il governo: certo, con un taglio progressista e riformatore, ma non è quello che i nostri antenati sognavano quando sventolavano bandiere rosse e cantavano l’Internazionale. Non si tratta di tornare alle origini: si tratta di ritrovare la strada (o di sceglierne un’altra), muovendoci da questo pantano in cui ci nutriamo di cultura socialista mentre ci siamo dimenticati del moto. Il Quarto Stato e lo slogan Avanti! hanno questo come estrema sintesi e significato: muoversi, continuare a camminare. La società di oggi è nata dopo la guerra, ed è frutto di un “compromesso” tra le parti in causa che si sono combattute nell’arco del ‘900. Tra queste noi tutti riconosciamo che è stato il riformismo socialista a dare più di tutti una spinta di cambiamento verso quella che una volta era la nostra meta, la stella turatiana di una società giusta. Spesso si dice che avevamo ragione rispetto ad altri nel nostro metodo: ma ora invece la storia ci dà torto, se consideriamo che anche noi ci siamo fermati.
Di solito la storia la raccontano i vincitori, e noi in Italia abbiamo smesso di raccontarla nel ’92; l’incubo è che un giorno sarà lo stesso per molti dei nostri compagni in Europa e nel mondo. Circola da tempo su Internet l’immagine del Quarto Stato “girato”, dove la folla è rivolta con la schiena verso chi guarda. Mi piace pensare che sia un ottimo modo per mettere simbolicamente alla prova le nostre intenzioni: tra chi vede che se ne vanno delusi, perché tutto è finito, e chi invece vede che stanno continuando ad andare avanti, e che noi siamo solo rimasti indietro: e che basta seguirli e riunirci a loro. Uomini di altri tempi come Malatesta ora dormono il sonno eterno, dopo una vita di febbrile e lucida azione. Ma ci hanno lasciato la loro esperienza e il loro esempio: un’eredità che pesa come un macigno sulle spalle di noi che siamo chiamati a decidere, all’ombra della grandezza di un secolo del quale molti sono nostalgici e con il quale siamo chiamati a competere. Come allora, ma con diverse intenzioni, si potrebbe dire a Malatesta di dormire: perchè ormai ha fatto il suo tempo e quindi deve smettere di assillarci con le sue parole; oppure perchè può stare tranquillo con la consapevolezza che in fondo la sua battaglia è anche la nostra.
1 G. GEROSA, Nenni, Longanesi, 1972.
2 L. FABBRI, Malatesta. Su vida y su pensamiento, Buenos Aires, 1945.
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