Pubblichiamo l’editoriale di Carlo Correr sull’Ucraina che apre il numero di marzo della rivista in uscita in questi giorni

Le ragioni che hanno portato i tank russi fino a Kiev sono molte e non tutte comprensibili e men che mai giustificabili. La prima, quella esplicita, dichiarata, è che per il Cremlino l’Ucraina è il cortile di casa della Russia.
Questa prospettiva rende più semplice comprendere quanto avvenuto dopo l’89, quanto sta avvenendo oggi e quanto potrà accadere nel futuro prossimo. Ed è un errore gravissimo averla sottovalutata.
Ogni Stato ha un suo “cortile di casa”. Se ad esempio guardiamo agli avvenimenti di Hong Kong o alle avvisaglie di crisi su Taiwan, non possiamo ignorare il punto di vista di Pechino. E d’altro canto è quello che abbiamo fatto in passato con Israele per il Libano o le alture del Golan, per gli Stati Uniti con la crisi di Cuba, per non parlare dell’interventismo politico e militare, esplicito o coperto di Washington nei Caraibi, da Panama al Guatemala, dal Nicaragua, a Grenada, ed anche più lontano come in Cile. Ma l’Ucraina per la Russia è molto di più di un Paese contiguo di fondamentale valore strategico; i legami storici, culturali, economici e famigliari ne fanno obiettivamente un’appendice, un po’ come l’Alto Adige diviso tra noi e l’Austria. Kruscev, tanto per ricordare, era ucraino.
Possiamo facilmente immaginare, dunque, come a Mosca, di fronte alle molteplici richieste di un impegno scritto in senso opposto, possano essere state accolte le ribadite ambizioni di Kiev, patrocinate da Washington dal 2008 (contro il parere di Roma, Parigi e Berlino), di entrare a far parte della Nato. Da un punto di vista strategico il posizionamento di armamenti, anche nucleari, in grado di colpire la Russia con un preavviso molto breve, può togliere il sonno ai vertici dell’esercito russo fino all’ultimo soldato. E queste paure non sono state certamente allontanate dalle esercitazioni aeree di attacco nucleare alla Russia nel novembre scorso. Anche nel caso di un conflitto convenzionale un’Ucraina nella Nato sarebbe un fianco troppo vulnerabile per la Russia, che non ha barriere naturali per rallentare un’eventuale invasione da ovest e, in base all’art.5, si troverebbe automaticamente in guerra con tutta l’Alleanza Atlantica.
Già alla conferenza sulla sicurezza di Monaco nel febbraio 2007, Putin tenne uno storico discorso dai toni duri contro il ‘mondo unipolare’ e l’allargamento della NATO, per spiegare qual era la sua visione dei problemi della sicurezza e perché a suo parere i legittimi interessi della Russia fossero stati non solo ignorati, ma calpestati. Da allora la situazione, dal suo punto di vista, non è certo migliorata.
Questo non può assolutamente giustificare l’aggressione dell’Ucraina, neppure una sola singola vittima, perché sempre di un’aggressione si tratta, ma aiuta ad avere una rappresentazione più corretta e completa della realtà.
Mosca, a torto o a ragione, si sente accerchiata e ha chiesto da tempo di non schierare altre armi nucleari “fuori dai confini nazionali” con un chiaro riferimento al centinaio di testate tattiche aggiornate B61 che dovrebbero essere stoccate in Belgio, Germania, Italia, Olanda e Turchia. Ma anche ai missili da crociera Tomahawk e allo scudo antimissile Aegis in Romania e Polonia che dovrebbe ‘proteggere’ i Paesi Nato da un attacco lanciato da ‘Stati canaglia’ come l’Iran o la Corea del Nord.Il problema è che questo stesso ‘scudo’ è anche in grado di intercettare i missili lanciati dal territorio russo e sminuire così la deterrenza nucleare di Mosca spezzando quell’equilibrio della reciproca distruzione atomica che finora ha garantito la pace.
Figuriamoci quale potrebbe essere la reazione di fronte a un ulteriore allargamento della Nato all’Ucraina; probabilmente dovremmo aspettarci una riedizione della crisi del ‘62 quando Mosca decise di installare missili nucleari a Cuba, a due passi dalla Florida, in risposta ai Jupiter americani in Turchia e all’invasione della Baia dei porci.
In parte, tutto questo tira-e-molla rientra nel “dibattito” tra Usa e Russia ripreso dopo il vertice Biden-Putin di giugno in vista di una riscrittura del Trattato Start, che si esaurirà nel 2026, per la riduzione degli armamenti nucleari strategici. Ma le paure di Putin non sono solo di carattere militare.
L’autocrate di Mosca teme forse tanto quanto i missili della Nato, anche l’avanzare della democrazia nei Paesi che una volta facevano parte dell’Unione sovietica.
In Ucraina dei circa 43 milioni di abitanti, una decina sono russi (il 17,3% stima 2021 soprattutto nel sud, Crimea, e a est nel Donbass) e la lingua russa è parlata da quasi il 30% della popolazione mentre le parentele che si intrecciano tra un confine e l’altro sono estese e radicate. La differenza con i russi consiste nel fatto che gli ucraini vanno a votare con una certa libertà e cambiano parlamento e presidente perché dal 24 agosto 1991, in Ucraina, il potere è contendibile. Un esempio che potrebbe far venire un’insana voglia di emulazione anche ai russi.
Nelle ultime elezioni presidenziali, quelle che si sono tenute il 21 aprile 2019, al ballottaggio il presidente uscente Petro Poroshenko, miliardario dell’industria dolciaria, è stato battuto da Volodimir Zelenski, l’attore comico che come Beppe Grillo in Italia, ha saputo cavalcare e sfruttare mediaticamente e politicamente il malcontento popolare. Forte di un consenso del 73,22%, ha portato il Paese alle elezioni politiche nel luglio dello stesso anno e il suo partito, “Servitore del popolo”, a dominare la Verchovna Rada, il Parlamento, col 44%.
Difficile immaginare che accada qualcosa del genere a Mosca dove gli oppositori politici dell’ex ufficiale del KGB, in sella al Cremlino dal 1999 (presidente dal 2000), di solito hanno vita difficile… quando riescono a conservarla. E chi oggi manifesta in piazza viene semplicemente arrestato, processato e condannato, anche se non mancano i buchi nella rete visto che il principale oppositore in cella, Alexei Navalny, tramite il suo portavoce riesce lo stesso a invitare i compatrioti a protestare contro la guerra di Putin.

La democrazia in Ucraina è un dato di fatto, ma è fragile e con gravi difetti; le agenzie di sicurezza statali costituiscono il braccio operativo della verticale del potere della presidenza senza evidenti differenze rispetto al Cremlino. “Dall’ottobre 2020, il Consiglio di sicurezza è diventato il centro del processo decisionale amministrativo, politico, giuridico nonché di sicurezza in Ucraina. Durante l’anno scorso, il Consiglio di sicurezza ha già sanzionato – aggirando le procedure giudiziarie per farlo – i giudici della Corte costituzionale, diversi oligarchi, molti cittadini ucraini sospettati di crimine organizzato, e alcuni leader dell’opposizione filorussa con le loro imprese e i loro mezzi di comunicazione”1.
Per la verità qualcosa è cambiato di recente visto che da alleati di Zelenski, gli oligarchi si sono recentemente trasformati in nemici, perché nell’autunno del 2021 sono state approvate delle leggi per “distruggere l’influenza degli oligarchi sulla società (attraverso i mass media che essi controllano) e le loro fonti illegittime di ricchezza”.
Zelenski, al pari di tutti gli attori di questa crisi, fino a ieri si è mosso tra guerra e pace come un equilibrista sulla fune. Ha sempre saputo di dover comunque convivere con la forte minoranza filorussa, ma anche che nel suo Paese si agitano forze ultranazionaliste, e in qualche caso apertamente filonaziste, contrarie a un accordo di convivenza con il temibile vicino.
Forse, anche per questo sono rimasti lettera morta gli accordi di Minsk, giunti al termine di una trattativa iniziata dopo l’annessione russa della Crimea. Così la piaga del Donbass è rimasta aperta con una guerra a bassa intensità che ha provocato almeno 14 mila morti e due milioni di profughi fino all’annessione de facto del 21 febbraio. Quegli accordi prevedevano, tra l’altro, una riforma della costituzione ucraina sulla decentralizzazione dello Stato con una speciale menzione per Donetsk e Lugansk e le elezioni nelle due mini repubbliche separatiste del Donbass; insomma la concessione di una forte autonomia come punto di equilibrio tra le parti, un po’ sul modello dell’Alto Adige o Südtirol. In Crimea e Donbass i russi rappresentano tra l’80% e il 90% della popolazione che, tra l’altro, con un referendum ha scelto di voler tornare con la Russia. E invece di smorzare il risentimento popolare e riconoscere diritti alla popolazione locale, il governo, in questi anni, ha deciso tutt’altro come, per esempio, che nelle scuole il russo può essere insegnato solo come lingua straniera e che il 90% dei film deve essere in lingua ucraina. Tutte carte che Putin può oggi giocare per giustificare la sua aggressione senza dimenticare che quanto accaduto potrebbe trovare una drammatica replica in Moldavia.
Zelenski ha 254 seggi sui 450 della Rada e la principale forza antagonista è il filorusso partito “Piattaforma di opposizione-Per la vita”, col 13% e 43 seggi (ma nel 2019 non hanno fatto votare i separatisti del Donbass). Volendolo, dunque, poteva forse fare di più per mantenere la promessa elettorale di una pacificazione per le repubbliche separatiste.
La sensazione è che quegli accordi non siano mai stati implementati non tanto per mancanza di forza politica del governo quanto per le ambiguità di Zelenski, e prima di lui di Poroshenko. Un errore gravissimo che ha dato a Putin un’altra spinta per l’aggressione, anche se non era certo facile dopo la perdita della Crimea accettare l’autonomia al Donbass.
L’agenda dichiarata da Zelensky, d’altra parte, prevedeva obiettivi affatto diversi: accelerare il piano di adesione alla NATO e all’UE e rimettere in discussione l’annessione russa della Crimea.
Oggi, peraltro, il conflitto aperto con la Russia, la possibilità di lungo confronto armato in tutta l’area che dal Donbass si estende fino a Odessa, rende impraticabile nel prossimo futuro l’ingresso nella NATO, e non solo per la storica resistenza di alcuni dei suoi membri, ma anche perché l’Alleanza non può accettare (Art.10) Stati coinvolti in attività belliche e perché, per l’ammissione, all’Ucraina viene richiesta una serie di riforme strutturali che riguardano gran parte dell’impalcatura istituzionale.

Questioni di sicurezza a parte, quanto all’economia bisogna ammettere che Putin in questi anni non ha certo reso la vita facile a Kiev.
Tutta l’Europa ha subito la crisi economica indotta dalla pandemia del Covid, ma in Ucraina è andata molto peggio con l’aggiungersi delle tensioni ininterrotte degli ultimi anni per la Crimea prima e per il Donbass dopo dove, in particolare, le condizioni di vita sono andate progressivamente e ulteriormente peggiorando.

In questi anni, Kiev non ha centrato neppure l’obiettivo dell’adesione all’UE. C’è voluta la guerra perché sull’onda dello sdegno collettivo si aprisse uno spiraglio con le ultime dichiarazioni della Von der Leyen: “L’Ucraina è una di noi, la vogliamo nell’Unione europea”.
L’ultimo vertice nell’ottobre scorso ha solo sancito una disponibilità di entrambe le parti ad aumentare la cooperazione, ma solo in termini di accordo di associazione avanzato e non di adesione. L’ostacolo è nei ‘criteri di Copenaghen’, ovvero, il rispetto delle condizioni basilari di una democrazia che si rispetti: istituzioni stabili, Stato di diritto, rispetto dei diritti umani, economia di mercato, capacità di mantenere gli impegni. Da tre decenni l’Ucraina passa da una crisi all’altra, con una politica che procede a scossoni, istituzioni deboli e poco trasparenti, una corruzione imponente (122.mo posto su 180 Paesi2).
Secondo un sondaggio effettuato prima del conflitto, per l’84% degli interpellati il Paese stava già vivendo una crisi economica mentre, in un’altra ricerca, il 52% dichiarava che la loro situazione finanziaria era peggiorata negli ultimi anni. Kiev sconta ancora, a distanza di più di 35 anni, gli effetti del disastro di Cernobyl che assorbono dal 5% al 7% della spesa pubblica per varie forme di risarcimento.
Il FMI ha stimato il PIL pro capite ucraino nel 2021 a 4.384 dollari, posizionando il Paese all’ultimo posto in Europa e tanto nel 2020 quanto l’anno passato, il governo ha speso l’11,5% del prodotto interno lordo per sostenere il debito pubblico, che ha raggiunto 41,52 miliardi di dollari all’inizio del 2021. Il debito è aumentato di 2,6 volte dalla crisi del 2008 e il costo degli interessi è cresciuto di 4,5 volte, mentre il tasso di crescita annuale del PIL, in questo stesso periodo, era appena sopra lo zero. Con un’inflazione all’9,4%, un PIL che non cresce abbastanza (+ 2,1% nel 2021 anziché il previsto 5,2% e che fa seguito a un – 4,2% nel 2020) e una decrescita della popolazione (-0,65), l’Ucraina avrebbe bisogno di stabilità non certo di una guerra.
In questi frangenti, Putin ha scientemente e profondamente terremotato l’economia ucraina in cattivo stato di salute nonostante dal 2014 riceva aiuti occidentali in denaro e armi, perché anche la costruzione del gasdotto North Stream 2, che bypassa l’Ucraina, costituisce una minaccia grave al futuro del Paese, sottraendogli una risorsa essenziale sia dal punto di vista economico che strategico.
Non a caso nell’agosto 2021, Zelenski aveva avvertito che il nuovo gasdotto tra Russia e Germania era “un’arma pericolosa, non solo per l’Ucraina, ma per l’intera Europa” e aveva investito molto denaro per fare lobbismo negli Usa contro il North Stream 2 che, se entrasse in funzione, gli farebbe perdere il suo ruolo di trasportatore del gas russo in Europa (177 mld di mc, il 22% dei flussi complessivi verso l’UE e il 40% di quello che consumiamo in Italia).
Il solo passaggio nei tubi ucraini del gas russo, anche se costantemente ridotto negli ultimi anni, frutta al governo circa 3 miliardi di euro l’anno (il 7% delle entrate statali). Con l’entrata in funzione del nuovo gasdotto, resterebbe comunque invariata la nostra dipendenza dal gas russo, ma Kiev non avrebbe più questa carta da giocare contro Mosca in una partita iniziata nel 1993 a colpi di minacce reciproche di chiusura dei rubinetti, riduzione delle forniture, di guerra dei prezzi e altre compensazioni come l’affitto dei moli della Crimea alle navi russe (fino al 2014).
Con l’annessione della Crimea, l’Ucraina ha cessato di acquistare gas dalla Russia (come la Polonia), sottraendosi al ricatto di Mosca, ma restando molto debole su questo piano perché consuma almeno il doppio dell’energia della Germania in rapporto al PIL ed è largamente dipendente dall’estero.
Quanto peseranno le sanzioni decise come alternativa al rischio di un terzo conflitto mondiale, ma soprattutto chi pagherà di più? Nel 2020 la Russia ha esportato verso l’Ue beni per un valore di 95,3 miliardi a fronte di 79 miliardi di importazioni. L’Italia è uno maggiori partner commerciali di Mosca. Secondo i dati dell’ICE, le esportazioni del nostro Paese verso la Russia sono pari a 7 miliardi di euro, mentre le importazioni (principalmente nel settore energetico degli idrocarburi) sono pari a 12,6 miliardi. In particolare importiamo il 90% del gas e di questo il 37,8% proviene dalla Russia. Incalcolabili poi i danni sia per l’Italia che per l’Europa con l’espulsione dal sistema SWIFT per le transazioni bancarie.
Le sanzioni colpiscono duramente gli interessi europei, assai meno quelli degli Stati Uniti che anzi, ad esempio, con la crescita dei prezzi del gas e del greggio, vedono aumentare i profitti delle loro compagnie petrolifere.
Notava Romano Prodi in un’intervista al Corriere della Sera (25 febbraio) che, ad esempio, il gas che arriva dagli Usa costa oggi cinque volte quanto costava a maggio dell’anno passato e che, dunque, nell’invocare sanzioni sempre più dure, Washington dovrebbe anche farsi carico almeno in parte dei relativi costi.
Alla fine si tireranno anche le somme politiche di questo conflitto. Se Zelenski aveva in mente l’adesione alla NATO, all’UE e il caso Crimea, anche Putin e Biden sono entrati nella crisi con i loro obiettivi.
Putin certamente voleva bloccare il processo di allargamento della NATO, creare divisioni al suo interno, ripristinare l’area di influenza che fu dell’Urss, ridiscutere gli equilibri strategici nel continente europeo, rafforzare la sua immagine interna logorata da un potere pressoché assoluto che dura da più di vent’anni, dimostrare la forza militare della Russia, intimorire soprattutto gli ex membri del Patto di Varsavia e fare sfoggio degli armamenti sul campo, da piazzare domani sul mercato globale.
Ma anche Biden può ottenere qualcosa: recuperare un ruolo centrale nel Vecchio Continente dettando tempi e modi della risposta militare, economica e politica anche nella fase negoziale, mostrare agli americani di essere forte e determinato per ridurre lo spazio di manovra dei repubblicani (e di Trump), che lo dipingono come inadatto ad affrontare le crisi, parlare a nuora (Putin) perché suocera intenda (Xi Jinping) sulle tensioni per Taiwan e per il Pacifico. Ma anche, e questa partita davvero ci riguarda tutti, dimostrare che le democrazie non sono logore, inette e in declino come vengono dipinte a Pechino e a Mosca, ma capaci di reagire e di mordere.
Attore praticamente passivo invece l’Europa, che non ha mai elaborato in questi anni una posizione comune sul dopo-Urss, lasciando che fosse la Nato e gli Usa a dettare tempi e modi di tattica e strategia.
Sull’onda dell’aggressione russa, quasi tutti i Paesi europei si sono impegnati ad aiutare l’Ucraina militarmente e, in qualche caso, si è prodotto un rovesciamento delle posizioni scaturite dall’ultimo conflitto mondiale come, ad esempio, quello della Germania, che ha deciso un colossale processo di riarmo che porterà le spese per la difesa al 2% del Pil, così come Washington chiedeva da tempo.
Putin, dunque, ha provocato direttamente non solo morte e distruzione, ma ha ridato una ragione di esistere alla NATO, ha innescato un processo che ci porta all’alba di una nuova Guerra Fredda con la ricostruzione di una Cortina di Ferro, il congelamento del processo di globalizzazione e ha inferto un colpo micidiale al soft power dell’Unione Europea.
Misureremo più in là le responsabilità dell’UE e degli USA nel non aver saputo, o voluto, prevenire il disastro. Ma una prima cosa già la sappiamo per certo: chi si gioverà sicuramente di questa crisi è l’industria degli armamenti.