Se ne è andato il nostro direttore. Questa è la notizia bruta, oltre che atroce. Ma basta a far venire in mente all’istante tante altre cose. Perché di Mondoperaio Luigi Covatta non è stato soltanto direttore dal 2009. L’ha rifondata, dopo che la voragine apertasi nella vita politica dopo il 1993 aveva cancellato i grandi partiti della repubblica e aveva distrutto le condizioni stesse di quello che era stato il dibattito politico nel primo mezzo secolo di vita della democrazia italiana. Con la sua dedizione e la sua generosità, peraltro così rigorosa, egli aveva dispiegato un immenso impegno per riproporre l’esistenza stessa di una riflessione politica e di un discorso che le effimere forme della cd.. ‘seconda Repubblica’ rendevano impossibile.

Il suo successo in questa impresa è legato esclusivamente alle sue straordinarie capacità, a quel suo modo d’essere abbastanza peculiare – anche se non del tutto eccezionale nella prima fase della Repubblica – con cui s’era venuto costruendo una personalità nella politica intesa in senso alto, come ‘professione’, ma proprio per questo, così ricca di una cultura in grado di capire fatti persone e cose col maggior senso possibile della realtà. Per lui, cioè, la ricerca delle cause non era mai fine a se stessa, quindi un modo per evadere. Serviva invece a dare senso, e senso politico, ai fatti. Per arrivare a tanto, bisognava essere generosi nella ricerca, e aperti, pronti ad accogliere una quantità di opinioni diverse. Poi, ma solo poi, si sarebbe potuto fare il punto con tutto il rigore analitico che serviva.

In questa assenza di pregiudizi Gigi esprimeva il meglio del riformismo socialista formatosi con quello scongelamento dei blocchi – non solo geopolitici, ma mentali – che era nell’aria del mondo da almeno dieci anni prima della caduta del muro di Berlino. E questo meglio non era imbalsamato nei ricordi di una stagione man mano più lontana. Non poteva esserlo, perché lo vietava la sua ansia di ricercare soluzioni per il presente e il futuro. Casomai c’era in lui la fiducia che l’esperienza lo aiutasse a decifrare quanto stava accadendo, in un sistema politico sempre più sfilacciato e in un ambiente sociale molto difficile da capire. E quando la tentazione dell’heri dicebamus si faceva quasi insopportabile, come per esempio di fronte al fallimento degli esaltatori della ‘seconda Repubblica’, le dava spazio con una dose di autoironia, senza pesantezze.
Alla fine, non solo gli amici e i compagni di una vita ma anche i lettori dei suoi editoriali potevano riconoscere un equilibrio sapiente fra la consapevolezza di una storia che non poteva più tornare, ma che andava ricordata come memoria utile, e la convinzione di poter esprimere una visione politica aggiornata, e con essa contribuire a rendere civile la convivenza. Una visione dove i rapporti di forza del momento contavano, ma non al punto da impedire di vederne le precarietà e le miserie, e di guardare perciò più avanti. Sfruttava così al meglio le risorse di cui disponeva, che non consistevano di truppe o di soldi, ma della capacità di sviluppare e diffondere una politica ragionata, composta di argomenti anziché di buone intenzioni o di chiacchiere.

Credo però che per lui la sfida più importante dei suoi ultimi anni sia stata di tradurre tutto questo in un prodotto collettivo destinato ad essere giudicato ogni mese dal pubblico. Sfida che ha vinto alla grande. L’ha vinta non solo per aver indovinato i temi su cui coinvolgere gli autori e poi i lettori dei pezzi, in uno sforzo costante, ma soprattutto per aver saputo trovare di volta in volta le persone giuste cui rivolgersi per scrivere su quei temi. Qui c’era anche una dote insostituibile che ha portato alla rivista. Una rete straordinaria di amicizie, frequentazioni, scambi intellettuali coltivata in una vita passata fra Milano, l’Emilia, Napoli e Roma, fra l’altro con una rarissima conoscenza dell’Italia profonda. Relazioni che andavano molto oltre la cerchia del partito di provenienza o i parlamentari delle legislature dei suoi mandati, coinvolgendo i mondi del giornalismo, del sindacato, dell’impresa, della chiesa, dell’istruzione, delle autonomie locali.

Sapeva dunque a chi rivolgersi ogni volta che trovava un’idea da sviluppare, meglio ancora in forma di dossier. E questa sua capacità si è espressa felicemente anche nel modo in cui ha saputo rivolgersi alle generazioni più giovani, in genere così lontane dalla vita e dai problemi della politica. E che, nell’avvicinarsi e nel collaborare alla rivista, non si sono assottigliate col tempo, ma sono al contrario cresciute. Grazie a molti giovanissimi, che chiamava nipoti, a Mondoperaio le opportunità del web si sono non a caso aggiunte a quelle della classica rivista cartacea, per lui comunque insostituibile.
Ecco perché oggi tutti riconoscono che Mondoperaio è l’ultima rivista di cultura politica italiana del Novecento ancora attiva e viva nel nuovo secolo. Ecco perché c’è una comunità che piange il suo direttore, ma ha imparato da lui tanto da poter sperare di non disperdersi e da proseguirne il più possibile l’opera.

Cesare Pinelli