Nel 2018 si é celebrato il secondo centenario della nascita di Karl Marx, che vide la luce a Treviri il 5 maggio 1818. La rivista lo ha celebrato a modo nostro, riproponendo il testo della relazione svolta da Bettino Craxi a Treviri il 4 maggio 1977 nel trentesimo anniversario della «Karl Marx Haus», la fondazione creata nel 1947 nella città natale di Marx. La manifestazione, alla quale parteciparono il presidente dell’Internazionale socialista Willy Brandt e rappresentanze dei partiti dell’Internazionale, venne promossa dalla fondazione Friedrich Ebert.

Una passione profonda dominò i padri fondatori del «socialismo scientifico»: l’emancipazione dell’uomo da ogni forma di schiavitù materiale e morale. Il loro valore supremo non fu la giustizia sociale disgiunta dalla libertà: concepirono sempre il socialismo come un ordine sociale in cui la libertà di tutti sarebbe stata la condizione della libertà di ognuno. Essi avversarono quello che chiamavano, con una espressione tagliente, il «comunismo di caserma». Una umanità irreggimentata, livellata in basso, inquadrata in una rigida disciplina marziale fu da essi considerata sempre come un pericolo da scongiurare. Avversarono il capitalismo ottocentesco perché questo proclamava l’ideale della libertà, ma in realtà riservava tale realtà solo a un’infima minoranza, la classe possidente, ed escludeva la massa dei proletari: i quali, per sopravvivere, erano costretti a vendere i loro corpi, la loro energia e la loro stessa essenza umana. Un tale sistema andava modificato alla radice proprio per allargare a tutti la libertà, per renderla piena e sostanziale. E la società comunista sarebbe stata, per l’appunto, il regno della libertà.

E tuttavia in nome del socialismo di Marx ed Engels sono stati instaurati nel mondo regimi oppressivi e totalitari. Di fronte a tale fenomeno possiamo chiederci quale nesso ci sia tra la teoria marxiana e tali regimi, e se in essa non vi sia una ambivalenza di fondo che l’ha trasformata nel contrario di quello che intendeva essere. Non è un caso che il marxismo a un certo punto abbia partorito una pletora di scuole che si sono dette ortodosse e che, in qualche modo, lo sono state effettivamente. Ciò è avvenuto molto probabilmente perché il marxismo non è stato sin dalle origini un «singolare», bensì un «plurale». Formidabile sintesi del sapere moderno – c’è chi ha parlato di un nuovo aristotelismo per indicare la grandiosità della Weltanschauung marx-engelsiana – esso ha ospitato in se stesso praticamente tutti i contributi significativi della cultura occidentale del secolo scorso. Ma proprio perciò il marxismo ha sempre avuto una struttura polivalente e ha svolto un ruolo storico contraddittorio.

Marx ed Engels sopravvalutavano in quel periodo le possibilità rivoluzionarie insite nel sistema

E’ imperativo porsi di fronte al socialismo di Marx e di Engels con un atteggiamento critico, distinguendo i vari modelli di socialismo che essi hanno proposto quale alternativa al sistema capitalistico. Ci sono stati, e continuano ad esserci, vari marxismi. E mi riferisco non solo al marxismo dei marxisti; mi riferisco anche al marxismo di Marx ed Engels. Il loro pensiero subì una evoluzione strettamente legata all’evoluzione oggettiva della società capitalistica, la cui dinamica socio-economica essi tennero sempre presente per dare il massimo di realismo possibile all’azione del movimento operaio. Il primo schema di transizione dal capitalismo al socialismo è stato fissato nel Manifesto in una forma destinata a rimanere classica e scandita nei seguenti passaggi: guerra di classe, conquista violenta dello Stato, dittatura rivoluzionaria del proletariato, collettivismo economico. Marx ed Engels sopravvalutavano in quel periodo le possibilità rivoluzionarie insite nel sistema. Fortemente influenzati dalle correnti più estremistiche del socialismo ottocentesco, essi credettero all’imminenza di una vera e propria palingenesi sociale.

Dopo la delusione della rivoluzione del ’48, essi compresero che la strategia dello scontro frontale non era altro che la proiezione di un potente desiderio che immaginava già presenti in Europa le condizioni materiali e spirituali del passaggio dalla società classista alla società senza classi. Allora elaborarono la strategia della «lunga traversata del deserto». Essi si convinsero – e cercarono di convincere i leaders del movimento internazionale – che il passaggio dal capitalismo al socialismo si sarebbe verificato solo quando lo sviluppo delle forze produttive avesse toccato il culmine, solo cioè dopo la fase dell’accumulazione forzata del capitale e della industrializzazione del sistema produttivo. Essi si resero conto che il socialismo, per liberare gli uomini da tutto alò che li opprimeva, aveva bisogno di una base materiale adeguata, vale a dire di un sistema economico opulento.

Di qui l’esaltazione della rivoluzione industriale e della borghesia capitalistica quale artefice dell’illimitato sviluppo delle forze produttive. Di qui altresì la tesi della rivoluzione comunista come rivoluzione post-industriale. Il capitalismo doveva compiere per intero il suo ciclo storico, espandersi a livello planetario. Poi si sarebbe palesata la contraddizione fondamentale tra le forze produttive e i rapporti di produzione che avrebbe portato allo scontro frontale fra la borghesia e il proletariato. Ma fino a quando la borghesia non avesse completato la sua missione storica non sarebbe stato possibile parlare di socialismo. Occorreva pertanto controllare l’impazienza rivoluzionaria, frenare la tentazione continuamente risorgente di voler materializzare subito e a qualsiasi costo il progetto socialista.

Dal momento che la rivoluzione non poteva essere prodotta dalla capricciosa volontà di alcuni dottrinari, la Spd doveva definirsi come un partito rivoluzionario, non già come un partito che faceva delle rivoluzioni

Per questo un grande teorico del socialismo democratico, che è stato anche un grande esegeta del pensiero marxiano (mi riferisco a Rodolfo Mondolfo) soleva dire che il Capitale era un invito alla prudenza, un ammonimento a non precipitare i tempi, visto che il parto del nuovo ordine può avvenire solo al nono mese, e non già prima. Diversamente, i rivoluzionari si sarebbero trovati fra le mani un aborto, o peggio una creatura mostruosa, lontanissima dalle loro aspettative. A questa strategia si attenne la Spd e soprattutto il suo maggior teorico, Karl Kautsky, che lottò costantemente contro tutte le forme di estremismo e di impazienza rivoluzionaria. Kautsky tenne sempre presente quella che era l’idea direttiva della strategia delineata nel Capitale: attendere che anime e cose fossero mature per il passaggio al socialismo, e nel frattempo lavorare ad elevare il grado di coscienza di classe dei lavoratori e a sviluppare e perfezionare le loro organizzazioni di lotta. Dal momento che la rivoluzione non poteva essere prodotta dalla capricciosa volontà di alcuni dottrinari, bensì sarebbe scaturita logicamente e ineluttabilmente dalle contraddizioni interne del sistema di mercato, la Spd doveva definirsi come un partito rivoluzionario, non già come un partito che faceva delle rivoluzioni.

La seconda strategia elaborata da Marx ed Engels si appoggiava su una ipotesi: che il sistema capitalistico avesse gli anni contati e che sarebbe precipitato nel nulla storico a causa delle sue insanabili contraddizioni interne. Se tale ipotesi non fosse stata suffragata dai fatti, i partiti socialisti avrebbero dovuto modificare la loro linea d’azione. Essi avrebbero dovuto ricorrere alla strategia dell’allargamento graduale, metodico, progressivo dell’area borghese della democrazia liberale. Già Marx, nel 1872 all’Aja, anticipò una simile svolta. Disse che là dove esisteva una consolidata tradizione liberal-democratica (Inghilterra, Stati Uniti d’ America e Olanda) sarebbe stato possibile – e opportuno – saggiare una strategia riformista e fare in modo che il socialismo trionfasse con mezzi assolutamente pacifici. Ma soprattutto Engels, poco prima di morire, in quello che giustamente viene considerato il suo testamento politico – mi riferisco alla Prefazione del 1895 — pose le basi ideologiche della via democratico-riformista al socialismo.

Prima di tutto Engels riconobbe esplicitamente che tale prospettiva rivoluzionaria – cioè l’abbattimento dello Stato borghese come unico mezzo per liberare la classe operaia dallo sfruttamento capitalistico – era superata, per ragioni politiche oltre che per ragioni strettamente tecniche. I rivoluzionari delle passate generazioni – fra i quali Engels collocava se stesso e Marx – avevano accarezzato l’idea di poter instaurare con un colpo a sorpresa il socialismo, grazie all’energica e risoluta azione di una minoranza cosciente e attiva. Senonché l’evoluzione storica della società moderna rendeva palese che ciò era assolutamente impossibile. La Comune stava lì a testimoniare il carattere irrealistico del modello quarantottesco. Da ciò egli trasse una logica conseguenza: che era necessario modificare la tattica del movimento operaio. Coerentemente con le conclusioni della sua nuova analisi, egli espresse piena fiducia negli strumenti della democrazia liberale e vide nel suffragio universale un mezzo che non aveva l’uguale per entrare in contatto con le masse popolari e costringere i partiti borghesi a difendersi dagli attacchi socialisti davanti al popolo.

L’Internazionale socialista doveva mettere da parte l’utopia millenaristica del salto rivoluzionario dal regno della necessità al regno della libertà e lavorare come una talpa nel sistema per cambiarne dall’interno la struttura

Marx, nella Guerra civile in Francia, aveva visto nel suffragio universale nient’ altro che un modo attraverso il quale veniva stabilito quale membro della classe dominante doveva opprimere il popolo in Parlamento. Una generazione più tardi, Engels giungeva alla conclusione che era proprio il suffragio universale la grande arma – non I’ unica, ovviamente – per far avanzare il movimento operaio verso la democrazia socialista.

Il discorso di Engels fu ripreso e sviluppato da Eduard Bernstein nei Presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia. Qui non solo il modello operativo abbozzato nel Manifesto fu messo in discussione sulla falsariga della autocritica engelsiana, ma anche la validità dell’idea del crollo catastrofico del capitalismo fu sottoposta ad una critica serrata. Dal momento che nulla indicava che il sistema di mercato era allo stremo – questa in sintesi la tesi centrale di Bernstein – davanti al movimento operaio europeo non restava aperta che una via, quella intravista dallo stesso Marx e teorizzata da Engels: il metodo gradualistico basato sulle riforme sociali e politiche e la lotta di classe per il superamento dei limiti borghesi della democrazia liberale. Conseguentemente l’Internazionale socialista doveva mettere da parte l’utopia millenaristica del salto rivoluzionario dal regno della necessità al regno della libertà e lavorare come una talpa nel sistema per cambiarne dall’interno la struttura. Occorreva, in altre parole, erodere con una azione lenta e paziente i centri di potere della classe dominante, sottoporre lo sviluppo economico al controllo della collettività, democratizzare le istituzioni, sviluppare la partecipazione dal basso e le forme di autogoverno.

Ma la conquista del potere da parte dei bolscevichi riaccese la fiamma della speranza rivoluzionaria. Il modello operativo del Manifesto, che Marx ed Engels avevano ripudiato esplicitamente, ritornò di colpo alla ribalta della storia. A molti sembrò che Lenin e Trockij avessero trovato il metodo giusto per provocare il parto della società socialista: militarizzazione del movimento operaio, guerra di classe, dittatura del partito unico, statizzazione integrale della vita economica. Antonio Gramsci non esitò a scrivere che la conquista del potere da parte dei bolscevichi doveva essere considerata come una «rivoluzione contro il Capitale». Certo: i bolscevichi si consideravano come dei marxisti ortodossi. Ma lo erano solo a condizione di considerare come insignificante tutto quello che Marx ed Engels avevano scritto dopo la delusione del Quarantotto. In breve, il marxismo di Lenin e Trockij non era altro che il giacobinismo giovanile di Marx ed Engels: un concentrato di volontarismo e di estremismo, di speranze millenaristiche e di autoritarismo, di moralismo esasperato e di realismo machiavellico.

Il giacobinismo è una concezione elitistica, autoritaria e totalitaria della rivoluzione

Stando così le cose, si capisce perché tutti i maggiori leaders della Seconda Internazionale rifiutarono di riconoscersi nel progetto bolscevico. Malgrado le divergenze, spesso profonde, che li dividevano, essi concordavano tutti su un punto: che socialismo e giacobinismo erano termini antitetici. Il giacobinismo, in effetti, è una concezione elitistica, autoritaria e totalitaria della rivoluzione. Affida a una minoranza cosciente e attiva il compito di creare autocraticamente la società perfetta. Il giacobinismo promette la democrazia sostanziale e la vera libertà, ma di fatto porta alla dittatura totalitaria dei custodi dell’ideologia. Proudhon meglio di qualsiasi altro ha individuato – e condannato – l’essenza del progetto giacobino: «Dateci diritto di vita e di morte su voi tutti, essi dicono, e vi porteremo alla salvezza».

Tuttavia il legame tra bolscevismo e marxismo non si limitò al recupero del giovanile giacobinismo di Marx ed Engels. C’era un’idea alla quale questi annettevano la massima importanza: la superiorità del collettivismo sull’economia di mercato, che essi identificavano con il capitalismo e quindi con lo sfruttamento. Nei loro scritti la statizzazione integrale dei mezzi di produzione è concepita come il passaggio obbligato per accedere alla società socialista. Fu appunto questa idea che i dottrinari bolscevichi vollero applicare con rigorosa conseguenzialità. «Il capitalismo di Stato – soleva dire Lenin – é l’anticamera del socialismo». Noi oggi conosciamo tutte le conseguenze negative di questa idea. Il monopolio delle risorse materiali porta alla fusione fra potere economico e potere politico, cioè al potere totale. Lungi dal liberare il lavoratore, la statizzazione generalizzata dell’economia diviene la base materiale della dittatura monopartitica e della formazione di una nuova classe. Sicché si può concludere che i bolscevichi credettero di lavorare per la liberazione degli uomini dallo sfruttamento, ma di fatto finirono per essere le prime vittime di quella legge sociologica che Max Weber chiamava «il paradosso delle conseguenze». Vollero sinceramente il regno della libertà e invece fecero nascere il regno del partito unico, totalitario, e dei suoi funzionari.

I partiti socialisti e socialdemocratici hanno seguito una via opposta. Hanno preferito attenersi alle indicazioni del vecchio Engels e alla metodologia operativa abbozzata da Bernstein. Anziché distruggere la democrazia rappresentativa, l’hanno potenziata; anziché cancellare il mercato, hanno mirato a sottoporlo al controllo politico; anziché accentrare i processi decisionali, hanno cercato di decentrarli, in modo da avvicinare la cosa pubblica ai lavoratori. Certo non sono riusciti ancora a creare un tipo di società conforme ai principi della democrazia socialista, dal momento che ancora oggi le società europee presentano tratti tipicamente classisti. Ma il metodo da essi adottato è risultato essere l’unico capace di accrescere la libertà e l’influenza delle classi lavoratrici. C’è quindi molto lavoro davanti a noi, e molti problemi palesano una complessità assai superiore a quella che pensavamo.

Ci sono vari modi di essere tributari del grande insegnamento di Marx ed Engels

Oggi, alla luce degli esperimenti compiuti nei paesi che hanno «saggiato» la via leninista, ci appare chiaro che la statizzazione integrale dei mezzi di produzione fagocita la logica pluralistica e tende a distruggere tutte le precondizioni che rendono possibile lo sviluppo della libertà delle classi lavoratrici. Sappiamo, in altre parole, che Marx ed Engels su questo specifico punto si sono sbagliati. Ma sappiamo anche che essi non hanno mai cessato di rivedere criticamente le loro posizioni e che la loro teoria della transizione al socialismo era multipla e in continua evoluzione. In altre parole, ci sono vari modi di essere tributari del grande insegnamento di Marx ed Engels. E’ giusto esprimere una fedeltà critica che non rinuncia a praticare l’unico metodo che può permetterci di correggere i nostri errori: il controllo continuo delle nostre ipotesi, la verifica metodica fra le aspettative e le conseguenze.

Un tale procedimento Marx ed Engels lo hanno applicato alle loro stesse idee, alcune delle quali essi non esitarono ad abbandonare di fronte alla smentita della storia. E questo proprio perché essi cercarono di essere fedeli ai loro progetto fondamentale, che era la liberazione dell’umanità da tutte quelle realtà, naturali o artificiali, che le impedivano — e tuttora le impediscono — di realizzare compiutamente se stessa. Del resto, quello che marxismo ha significato per il movimento operaio europeo è già da tempo consegnato alla storia. Grazie ad esso — ai suoi formidabili strumenti analitici e alla sua critica distruttiva di ogni forma di classismo — i lavoratori hanno acquistato una coscienza politica, un ruolo fondamentale nella nostra società. Il marxismo continua a far parte del corredo intellettuale e morale del socialismo democratico proprio perché esso ha proclamato a chiare lettere diritto di tutti gli uomini, quale che sia la loro classe, la loro religione o la loro razza, alla libertà sostanziale.

Il marxismo non aveva e non ha tutta la ragione dalla sua, ma la parte di ragione che ha è sufficiente per considerarlo una delle componenti imprescindibili dell’ethos del socialismo democratico. Quanto agli errori e alle illusioni di Marx ed Engels, spetta a noi fare in modo che essi non continuino ad operare, producendo i loro tipici effetti negativi. In questo senso il socialismo moderno può dirsi marxista, ma deve anche dirsi revisionista. Il destino di tutti i grandi dell’umanità — Marx ed Engels lo sono stati in sommo grado — è quello di essere superati, non già imbalsamati e trasformati in feticci. Questo è l’unico modo di sviluppare criticamente quello che essi ci hanno insegnato.