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Luciano PeroMondoperaio 4/5-2018

Con la stagione di apertura dei mercati mondiali iniziata negli anni Novanta tutto il sistema produttivo e industriale mondiale ha iniziato un percorso di profonda trasformazione strutturale, che ha toccato sia la divisione internazionale del lavoro sia  soprattutto l’architettura e le filiere di produzione e di vendita delle imprese, nota come “network del valore globale”. La prima novità è conseguente agli accordi sul commercio internazionale, siglati a più riprese dagli Stati aderenti al Wto (World trade organization), che ha consentito una crescita straordinaria degli interscambi e dei commerci per mezzo della apertura dei mercati e  della regolazione dei dazi doganali.

La crescita degli scambi commerciali tra i diversi continenti ha raggiunto nel decennio 1998-2008 valori straordinariamente elevati e senza precedenti storici. Essa ha consentito livelli di sviluppo eccezionali nei paesi di nuova industrializzazione, come ad esempio Cina, India, Corea del Sud, Turchia, Est Europa: ma nel contempo ha prodotto una forte deindustrializzazione nei paesi più sviluppati, come ad esempio Usa, Canada ed Europa Occidentale, molto superiore alle previsioni. Tutto ciò ha generato diseguaglianze e squilibri che i governi non riescono a controllare adeguatamente. Ma il controllo è reso difficile anche dal fatto che l’antico strumento dei dazi doganali unilaterali è oggi di uso sempre  più difficile, a causa della crescita enorme degli scambi di componenti, semilavorati e materie prime.

Infatti, va ricordato che la divisione del lavoro tra paesi e territori è un fenomeno molto antico, nel senso che sin dall’antichità i territori si sono specializzati nella produzione di manufatti che poi venivano esportati in altri territori, ma già pronti per l’uso. Oggi la comparsa di imprese che competono attraverso un sistema che riesce a combinare filiere, reti di subfornitura, fabbriche finali, magazzini e punti vendita situati in diversi continenti del mondo è una novità assoluta, resa possibile sia dai trasporti più efficienti e dai voli intercontinentali, sia da internet e dalla semplicità di scambio di informazioni tecniche e commerciali. Ne segue che i network del valore globale, cioè la seconda novità storica, sono collegati alla prima e la condizionano fortemente. Le due novità sono strettamente intrecciate.

Siamo dunque nell’epoca in cui una nuova divisione del lavoro produce la diffusione dei network del valore globale, cioè di imprese che combinano reti di fornitura, poli produttivi e sistemi di vendita a scala mondiale. Questi network non riguardano solo la grande impresa, ma anche e soprattutto le piccole aziende, i distretti e le filiere tipiche del sistema italiano, comprese imprese di servizio e di trasporto. Sono soprattutto le piccole imprese che, se non si innovano e non si agganciano a un network globale, rischiano di restare senza mercato e di scomparire. Ovviamente le modalità di cambiamento e le forme dei network globali sono molto diverse tra i settori e tra le stesse imprese che competono su prodotti simili. Inoltre lo sviluppo dei network globali comporta che le imprese, per quanto grandi e dotate solitamente di molte risorse finanziarie , devono appoggiarsi e utilizzare le cosiddette “piattaforme industriali”: cioè aggregati stratificati di varie imprese subfornitrici di componenti, tecnologie e semilavorati. Esse sono essenziali per la complessità crescente dei prodotti e per le gigantesche quantità da produrre, con le conseguenti economie di scala necessarie. Le grandi piattaforme industriali transnazionali sono dunque anch’esse un risultato dello sviluppo degli ultimi decenni, come ad esempio le piattaforme usate dalla grande industria tedesca presenti in Polonia, Repubblica Ceca, Austria, Italia e Spagna, oppure le piattaforme che collegano le grandi imprese giapponesi con i subfornitori di Cina, Corea e Tailandia. Di conseguenza i temi centrali di una politica industriale nei paesi sviluppati nell’epoca della globalizzazione sono assai diversi da quelli del ‘900 a scala nazionale.

Favorire l’innovazione tecnologica, organizzativa e la partecipazione dei lavoratori e finalizzare la ricerca scientifica e tecnologica all’innovazione e alla produttività

A me paiono essere i seguenti:

  • monitorare la divisione internazionale del lavoro e gli effetti degli accordi commerciali Wto: è importante studiare gli effetti sulla nostra economia e intervenire sia a difesa delle imprese più colpite sia a sostegno delle nuove opportunità; in effetti, tra una politica di rifiuto degli accordi Wto e una politica di liberismo totale sembrano non solo possibili ma molto opportune politiche di monitoraggio, di intervento e regolazione mirata, come ad esempio hanno adottato i governi del Giappone, delle Germania e della Francia;
  • favorire il passaggio da sistemi con base prevalentemente nazionale a network del valore globale: bisogna operare sia a supporto delle manovre di aggregazione proprietaria, di acquisizione e di fusione, sia a favore della costruzione di reti di vendita in altri continenti, sia con l’innovazione tecnico-organizzativa e con la formazione di imprenditori e manager preparati ai nuovi compiti;
  • controllare e indirizzare i processi di delocalizzazione e di vendita, acquisizione e fusione: la delocalizzazione e la vendita delle imprese nazionali non sono un bene o un male assoluto, ma dipendono dai contesti e dai modi con cui possono favorire o deprimere lo sviluppo del nostro paese; in Italia le delocalizzazioni attuate nei decenni scorsi in modo spontaneo sono state per lo più di tipo opportunistico e con ottica di breve periodo, diversamente dalla Germania e dal Giappone, dove queste pratiche sono state perseguite con finalità di sviluppo di lungo periodo;
  • favorire l’innovazione tecnologica, organizzativa e la partecipazione dei lavoratori e finalizzare la ricerca scientifica e tecnologica all’innovazione e alla produttività: sull’importanza dell’innovazione tecnologica non bisogna spendere parole, perché è a tutti nota; meno nota è invece l’importanza dell’innovazione organizzativa e di una nuova gestione delle risorse umane per la crescita di produttività, precondizione per l’uso efficace delle nuove tecnologie digitali e 4.0; organizzazioni tradizionali, ad alta burocrazia e ad alta gerarchia, con una pletora di capi e capetti, non sono in grado di utilizzare le nuove tecnologie e neanche di applicarle senza aumentare il grado di coinvolgimento attivo dei lavoratori;
  • riformare l’intero sistema formativo adeguandolo alla cultura richiesta dalla nuova epoca e ai fabbisogni di sviluppo del paese: da noi è appena iniziata la discussione su come adeguare l’intero sistema scolastico e universitario all’epoca della globalizzazione, e non solo all’economia digitale; in particolare va ricordato che non c’è coincidenza tra economia digitale e internazionalizzazione, che sono fenomeni complementari ma diversi, per cui non basta la formazione al digitale, che è solo una componente.

Ben pochi di questi nuovi temi della politica industriale nell’epoca della globalizzazione sono stati affrontati dai governi italiani in modo organico e con un’ottica di lungo periodo nel ventennio 1994-2014. Forse solo i governi dell’Ulivo tra il 1996 e il 2000 hanno dato un indirizzo per il risanamento e l’innovazione di alcune grandi imprese pubbliche (in particolare Eni, Enel, Ferrovie dello Stato, Poste italiane, Fincantieri e Finmeccanica), favorendo la loro trasformazione in moderne imprese globali con un management innovatore. Ne vediamo oggi alcuni risultati positivi. Gli altri governi si sono poco interessati di questi argomenti e hanno in genere lasciato libero spazio alle tendenze spontanee del mercato, con i risultati negativi che sono all’origine della crisi attuale e che ci hanno portato alla stagnazione economica dell’ultimo decennio.

Favorire l’innovazione tecnologica, organizzativa e la partecipazione dei lavoratori e finalizzare la ricerca scientifica e tecnologica all’innovazione e alla produttività

Inoltre le debolezze strutturali del sistema istituzionale in Italia (inefficienza della pubblica amministrazione, lentezza della giustizia civile, debito pubblico elevato, evasione fiscale, etc.) si sono sommate alla mancanza di una visione di politica industriale e alla crisi delle famiglie imprenditoriali più importanti. La somma di tutti questi fattori è all’origine della bassa crescita di produttività negli scorsi decenni e della difficoltà di risposta alla crisi finanziaria 2008-15 da parte delle imprese italiane. Pertanto il sistema produttivo italiano, che già era in difficoltà ad adeguarsi alla globalizzazione nel decennio ‘98-2008, è stato molto colpito dalla crisi finanziaria, come accade agli tsunami dopo i terremoti: con fallimenti a catena, collasso di interi settori e difficoltà a uscire dalla crisi. L’industria italiana è allora diventata terra di conquista dei predatori stranieri di imprese: molti di essi hanno fatto razzia dei marchi italiani più prestigiosi e della loro capacità manifatturiera accumulata nei decenni scorsi. Centinaia di imprese con notevoli capacità industriali, dai giocattoli alla siderurgia agli alimentari, sono passate sotto il controllo di finanziarie estere o di gruppi stranieri, con grave danno per il nostro futuro.

Ovviamente i dati statistici sugli investimenti esteri in Italia e su quelli italiani all’estero possono essere interpretati in tanti modi, così come quelli sulle fusioni e acquisizioni, dosando in modo diverso ottimismo e pessimismo e visione nazionale contro visione europea. Tuttavia va sottolineato che qualsiasi lettura dei dati deve ammettere che solo una parte limitata del sistema delle imprese con sede in Italia si è adeguata all’internazionalizzazione e al modello dei network globali. Seguendo le ricerche Istat si può valutare che le imprese innovative sono solo un terzo del totale, mentre i restanti due terzi sono a rischio oppure operano su settori e con strategie stagnanti e tradizionali. A mio avviso, inoltre, la difficoltà di sviluppare una visione del futuro dell’industria e di proporre una politica industriale adeguata ha riguardato anche le forze progressiste presenti in Parlamento e gli stessi sindacati, che si sono attardati per decenni sulla richiesta di concertazione col governo delle politiche fiscali, sociali ed economiche, tralasciando le politiche industriali e i temi detti sopra. Finalmente, con la legislatura che si è chiusa, si può dire che sia iniziata una prima esperienza di politica industriale organica e adeguata ai tempi, seppure ancora debole e a mio avviso incompleta. Mi sembra che i punti di forza di questa esperienza possano essere riassunti in quattro insiemi di provvedimenti.

Incentivi alla produttività aziendale basati sui premi di risultato, sulla partecipazione e sul welfare aziendale. L’aumento della produttività aziendale, basato su uno sforzo collettivo dei lavoratori, è al centro delle nuove normative sui premi di risultato contenute nelle leggi finanziarie 2015, 2016 e 2017. Le nuove normative hanno il merito di incentivare il superamento delle pratiche opportuniste spesso presenti negli accordi aziendali degli anni precedenti. La normativa richiede una definizione più rigorosa degli indicatori di risultato, un miglioramento reale rispetto all’anno precedente e un maggior coinvolgimento dei lavoratori e delle rappresentanze sindacali. Nella legge finanziaria 2017 la partecipazione paritetica dei lavoratori al miglioramento continuo è ancora più incoraggiata, sino a prevedere incentivi per progetti congiunti di innovazione tecnologica e organizzativa tra aziende e rappresentanze sindacali. Anche la modifica della legge fiscale a favore di un welfare aziendale negoziato con i sindacati è da considerare un incentivo per le imprese ad aumentare il grado di coinvolgimento e partecipazione dei lavoratori. Il buon successo di questi provvedimenti è testimoniato dal fatto che sono stati depositati più di 27.000 accordi aziendali.

Incentivi alla innovazione tecnologica con il Piano Industria 4.0. Il Piano Industria 4.0, lanciato dal ministro Calenda per il rinnovamento tecnologico e l’introduzione delle tecnologie digitali nelle imprese, è indubbiamente il provvedimento più importante di politica industriale. Dai dati disponibili sembra che esso abbia effettivamente stimolato sia un ampio rinnovo dei macchinari che l’introduzione delle nuove tecnologie digitali e produttive, anche se forse in misura minore rispetto all’adeguamento dei macchinari. Ma soprattutto  ha avuto un effetto positivo sul piano della cultura di impresa, producendo una sorta di effetto “sveglia” sul sistema industriale e un benefico shock per uscire dall’attendismo del periodo di crisi.

Sostegno ai marchi, al made in Italy e più controllo sulle operazioni di fusione e acquisizione. Su questi temi, che sono complessi per le implicazioni con l’Europa e i trattati internazionali, il governo ha finalmente iniziato a muoversi con un po’ più di attenzione e di determinazione soprattutto i ministeri dello Sviluppo economico e delle Politiche agricole. Diversi provvedimenti hanno cercato di tutelare i marchi italiani e le filiere del made in Italy, anche nel settore agroalimentare.

Sviluppo delle infrastrutture strategiche, in particolare telecomunicazioni banda larga, energia, ferrovie ad Alta velocità e altre infrastrutture. Anche su questi punti il governo, in parte proseguendo piani e linee di lavoro precedenti, ha accelerato o aggiornato i piani di sviluppo finalizzandoli meglio al miglioramento del sistema produttivo.

Le linee di politica industriale attuate negli ultimi anni sono certamente importanti e utili, ma devono essere arricchite e completate

I punti di debolezza della legislatura che si è chiusa possono essere indicati a mio avviso in tre aspetti:

  • scarsa attenzione e interventi troppo deboli sulle delocalizzazioni, cessioni e fusioni, soprattutto per le imprese medie e grandi; ciò si è verificato anche nel caso di imprese di interesse nazionale come le telecomunicazioni, l’energia e la siderurgia; si poteva fare di più per alcune filiere molto rilevanti per l’economia nazionale, come l’automobile, l’agro-alimentare e la moda;
  • mancato completamento del Piano industria 4.0: ciò si è verificato sia per le infrastrutture di sostegno al know how (Competence Center) e la rete dei diffusori, sia soprattutto per l’innovazione organizzativa, del lavoro e del sistema formativo, necessaria a sostenere lo sforzo di innovazione tecnologica;
  • debole o scarsa integrazione tra le varie linee di riforma: in particolare non c’è stato coordinamento tra gli interventi sul mercato del lavoro (Jobs Act), gli interventi sulla scuola e la formazione, la riforma della pubblica amministrazione, gli ammortizzatori sociali, le politiche fiscali e finanziarie, il piano industria 4.0; i diversi progetti di riforma sono stati concepiti e realizzati prevalentemente per linee interne e con principi elaborati anni fa; non ci sono state idee guida unificanti delle varie riforme.

Le linee di politica industriale attuate negli ultimi anni sono certamente importanti e utili, ma devono essere arricchite e completate. A mio avviso i punti rilevanti su cui lavorare in futuro sono i seguenti.

  • Sostenere maggiormente il passaggio delle imprese ai network globali. Come detto sopra, oggi si valuta che solo il 20-30% del sistema sia entrato in questa dimensione (si tratta delle imprese che “vanno bene” e che tirano l’economia). Il passaggio dalla architettura tradizionale ai network globali va sostenuto con più forza attraverso strumenti e tecniche appositamente pensate per le specificità italiane, in particolare per i distretti, i cluster e le filiere. Ad esempio bisogna favorire la crescita dimensionale e l’aggregazione intorno a poli trainanti, organizzare meglio e a scala più ampia la componentistica e le forniture specialistiche, i servizi knowledge intensive, le reti di vendita nei paesi emergenti. Per le grandi imprese e per le crisi aziendali complesse bisogna dotarsi di strumenti ad hoc che favoriscano un rilancio basato sull’innovazione invece che sulla cassa integrazione. Bisogna puntare a creare lavoro invece che sostenere il reddito.
  • Difendere meglio le tipicità e i punti di forza del made in Italy anche scegliendo i settori e le politiche verticali ritenute strategiche. Come noto i prodotti tipici italiani, sia tradizionali (come le famose quattro “A” e il turismo), sia quelli innovativi (come ad esempio il biomedicale), hanno grandi opportunità di espansione nei mercati mondiali ma richiedono un sostegno più ampio sia nelle fasi di marketing e di vendita che nelle fasi di innovazione, di produzione e di certificazione. A questo scopo le politiche di sostegno trasversali a tutte le imprese, dette anche “orizzontali”, non sono sufficienti perché spesso troppo generiche. Ci vorrebbero politiche “verticali” di settore, o sottosettori, finalizzate a supportare innovazioni mirate e specifiche, con l’obiettivo di aumentare l’export e di produrre lavoro. Spesso la competitività cresce eliminando in modo mirato singole debolezze o carenze di prodotto, di processo o di competenze. Queste politiche verticali e mirate richiedono però analisi accurate e terapie condivise con le imprese e tutti gli altri attori, compresi enti locali, scuole e sindacati.
  • Creare strumenti di politica industriale adatti al sistema Italia. La tipicità del sistema produttivo italiano e la numerosità delle piccole e medie imprese famigliari richiedono strumenti giuridici, finanziari e manageriali adatti alla riconversione di queste imprese in strutture adatte ai nuovi mercati. Bisogna immaginare una vera e propria riconversione diffusa delle imprese famigliari in strutture più grandi, meglio gestite e più managerializzate.
  • Lanciare un piano nazionale per l’innovazione organizzativa, la partecipazione e le competenze delle risorse umane. Le nuove tecnologie, acquisite con gli incentivi del Piano Industria 4.0, richiedono di essere usate al meglio da nuove forme organizzative, basate più sul lavoro in team che sulla gerarchia, e da lavoratori più coinvolti e con più competenze tecniche e gestionali. Ad oggi il Piano Lavoro 4.0 è stato solo annunciato. Oltre che di formazione sulle tecnologie digitali vi è necessità di svecchiare la gestione delle imprese, soprattutto medie e piccole, con un vero e proprio Piano di innovazione organizzativa e di partecipazione dei lavoratori. Esso deve essere in grado di indirizzare anche gli investimenti sostenuti dai Fondi europei e la formazione dei Fondi Interprofessionali.
  • Riorientare il sistema scolastico, le università, la ricerca e la formazione professionale e continua.

Il Piano Industria 4.0 ha puntato lodevolmente sugli Istituti tecnici superiori, ma purtroppo sono state stanziate risorse limitate. Tuttavia tutto il nostro sistema formativo (scuola media superiore, università, formazione professionale e continua) soffre di astrattezza, di separazione dal mondo reale del lavoro, di difficoltà a preparare alla vita e alla professione, di arretratezza dei contenuti non adeguati al nuovo millennio. Invece le competenze essenziali oggi nascono proprio dalla collaborazione tra scuola e lavoro, tra formatori, imprese e società. Una politica di riorientamento dell’intero sistema formativo è certamente difficile, dato il contesto frammentato e corporativo, ma è probabilmente quella più importante e decisiva sul lungo periodo. Ci vuole non solo forza e decisione politica, ma anche visione del futuro e competenze specifiche.