L’Italia è un paese sempre più vecchio e sempre più povero. Ma non è sempre vero che chi è più povero necessariamente pesa di più allo stato. Un campanello d’allarme su questa verità possiamo facilmente scoprirla osservando lo stato attuale delle pensioni.

Osservando gli ultimi dati forniti dall’Istat, scopriamo infatti che il sistema pensionistico in toto coinvolge 22,8 milioni di italiani a vario titolo per una spesa complessiva di poco più di 300 miliardi di spesa pubblica annua. Effettivamente non un’enormità, considerando la media pro capite di spesa intorno ai 13.100 euro annui (1.000 euro al mese oltre la tredicesima mensilità), soldi con cui un pensionato può vivere dignitosamente, con un appartamento di proprietà o con un basso canone locatizio.

Questo dato medio è, tuttavia molto falsato: basta notare, infatti, che per le sole pensioni medio-alte (dai 3.000 euro mensili in su), percepite dal 4,37% dei fruitori lo stato spende 52,8 miliardi, vale a dire il 17,6% della spesa previdenziale totale. Questi destinatari, a vario titolo (talvolta cumulativo, e comunque al netto dei trattamenti assistenziali), di trattamenti pensionistici gravano sulla finanza pubblica complessivamente tanto quanto 10,2 milioni di pensionati.

Al di sotto di 750 euro mensili, abbiamo quasi 12 milioni di pensionati per una spesa complessiva di 63,5 miliardi, vale a dire un trattamento pensionistico medio pari a 5.300 euro annui, di molto al di sotto rispetto alla soglia della povertà assoluta Istat.

Quando spesso si parla di revisione del sistema pensionistico, tuttavia, a farne maggiormente le spese sono le pensioni più basse, tanto da aver implementato nell’ultimo decennio la platea dei percettori di una pensione di molto al di sotto del minimo: sono 1,9 milioni gli italiani che percepiscono un trattamento pensionistico inferiore ai 250 euro mensili.

Come intervenire, dunque? Occorre sicuramente l’introduzione di un principio di solidarietà nelle erogazioni pensionistiche, a partire dalla tredicesima mensilità: introdotta con la legge 26 novembre 1953 numero 876, “Concessione della tredicesima mensilità ai titolari di pensioni ordinarie”, successivamente estesa a tutte le pensioni con decreto della presidenza della repubblica, la cosiddetta tredicesima nasceva dalla necessità di dare un ulteriore sostegno ai nuclei in difficoltà, oltre che una gratifica natalizia dovuta per la produttività (per i lavoratori). Una revisione della tredicesima mensilità, eliminandola dai trattamenti pensionistici più elevati, potrebbe portare, se ben strutturata, a un tesoretto tra i 10 e i 15 miliardi che, se spesi bene, possono sicuramente incrementare le pensioni minime, strutturare in maniera compiuta misure a sostegno della natalità e delle famiglie disagiate, o in investimenti, o in contribuzioni pensionistiche per laureati, o ancora per il taglio della tassazione a favore di artigiani e piccoli imprenditori, o nell’incremento del servizio sanitario pubblico, o per l’abbattimento del cuneo fiscale.

Una revisione, insomma, che miri a limitare le spese pensionistiche o comunque riorganizzare le spese previdenziali, per liberare risorse con finalità solidali. Solidale non solo all’interno del “ceto pensionistico”, ma anche tra generazioni. La solidarietà, infatti, è la dimenticata dal sistema pensionistico italiano: ingiusto con tanti, iniquo per troppi.