Vittorio Emiliani

“Giornalista sono nato, giornalista sono stato, giornalista sarei dovuto rimanere”. Così si esprime Pietro Nenni dal fondo dell’abisso di pessimismo nel quale è precipitato dopo la batosta elettorale del Fronte Popolare, il 18 aprile 1948. Di essa, certo, il leader del PSI porta grande responsabilità avendo molto premuto per il listone unico PSI-PCI sconfitto storicamente, coi socialisti massacrati dai comunisti nel gioco delle preferenze. Da una parte Nenni mette così crudamente a nudo i limiti di chi è nato ed è stato giornalista (grande giornalista però), portando a volte in politica un certo pressappochismo. Dall’altra riconosce al giornalismo, praticato fin da prima dei vent’anni, un ruolo davvero centrale nella propria esistenza. “Ha qualità di primo ordine come giornalista generico. Poca o punta preparazione culturale, moltissimo intuito politico (…). Per ora andiamo molto bene d’accordo.” Così lo ritrae, nel 1926, al tempo in cui collaborano per Quarto Stato, Carlo Rosselli, politico colto, docente di economia, in rapporto con Keynes, in una lettera alla madre.

Quasi sempre, nel raccontare la formazione del giornalista politico Pietro Nenni, la si accomuna a quella di Benito Mussolini di otto anni più anziano di lui e però cresciuto come lui nel pieno del ribellismo post-unitario, con spunti frequenti di insurrezionismo derivati dal Risorgimento, in Romagna popolare oltre che borghese. Con una questione sociale molto pressante che i dati dell’Inchiesta Agraria dell’83 evidenziano in modo drammaticamente esemplare: una regione decisamente povera; città come “assediate” da masse di lavoratori senza terra disoccupati la più parte dell’anno; tassi di analfabetismo che nelle campagne superano l’80 per cento. Coi socialisti riformisti alla maniera del grande Nullo Baldini di Ravenna (1862-1945), che a poco più di vent’anni organizza la prima cooperativa, l’Associazione Braccianti, la quale bonificherà – fra sacrifici, stenti e morti precoci per malaria e tifo fulminante – prima Ostia Antica e poi Maccarese. Nenni e Mussolini, oltre che vivere, soprattutto nel periodo forlivese (nel 1911), una parte di vita comune, emergono presto, entrambi, come grandi comunicatori, oratori di piazza trascinanti e giornalisti dalla scrittura rapida, scandita, polemica, spesso a slogan.

Il giovanissimo Pietro Nenni, nato a Faenza, città di cardinali, la sola “enclave bianca” nella Romagna anticlericale, socialista e repubblicana, racconta la propria infanzia e adolescenza, l’iniziazione alla cultura e alla politica, in Pagine di diario, pubblicato da Aldo Garzanti (anch’egli romagnolo, di Forlì, e mazziniano) nel lontano 1947. A mio avviso, una delle testimonianze più belle, asciutte, drammatiche e appassionati fra quelle della generazione nata alla fine dell’Ottocento. Vale la pena di riprodurne qualche passaggio. Anzitutto quello in cui ricorda come, morto precocemente il padre, fattore dei conti Ginnasi, la signora contessa “si considerò in regola con gli obblighi della cristiana solidarietà quand’ebbe ottenuto di farmi vestire per oltre dieci anni l’uniforme nera a filetti rossi dell’orfanotrofio cittadino (…) I dieci anni di orfanotrofio sono stati l’inguaribile piaga della mia vita. A questa claustrazione devo un certo complesso di rivoltoso che non mi ha più abbandonato”. Sono anni di avvicinamento all’idea repubblicana, sono anni di letture disordinate e intensissime, Victor Hugo, Eugène Sue coi Misteri di Parigi, Michelet e la sua storia della rivoluzione francese e poi le vite di Mazzini e di Garibaldi scritte da Jesse White Mario, Leopardi, Carducci e Pascoli, avendo però quale autore preferito Giuseppe Mazzini e le sue lettere alla madre. Finite le elementari, qualcuno accarezza per lui l’idea del Seminario, che il giovanissimo Pietro respinge (parole sue) con “le forme blasfematorie più brutali”. Consegue la licenza tecnica e si impiega in un laboratorio di ceramica. Mesi felici soprattutto “dietro al tornio dei ceramisti” (un’arte tipica della sua città nota nel mondo per le faïences, le faenze). A 17 anni, “col magro viatico di un salario settimanale di dieci lire, chiesi e ottenni di svestire l’uniforme della pubblica beneficenza”. In quello stesso 1908, il 5 aprile, firma il suo primo articolo sul Popolo di Faenza.  Comincia qui la “carriera” giornalistica di Pietro Nenni, che si sviluppa attraverso la collaborazione costante al settimanale repubblicano Il Lamone con “trafiletti romantico-sentimentali” (ancora parole sue) in cui echeggia il ribellismo delle “bombe alla Orsini (l’attentatore, romagnolo e repubblicano, di Napoleone III, n.d.r.) o del pugnale di Armonio o di Passanante”.  La partecipazione ad uno sciopero gli costa il posto nella ceramica. “Il mio destino fu tracciato: sarei stato un propagandista, anzi un agitatore”. Il quale però – alla maniera delle gazzette risorgimentali – impugna la penna come una spada lungo il percorso irto di contrasti così ben raccontato e inquadrato da Giuseppe Tamburrano nella vasta biografia Pietro Nenni (Laterza, 1986) e da Gianna Granati, segretaria della Fondazione Nenni, in Pietro Nenni, protagonista e testimone di un secolo.

Giovanissimo, scrive articoli violentemente anti-monarchici e si fa condannare per aver ostentatamente fischiato la banda che suona la Marcia reale. Nel 1909 è fra Milano, dove l’ha chiamato un politico repubblicano già noto, il garibaldino Eugenio Chiesa, e la Toscana dove organizza i primi scioperi politici, fra i cavatori della Lunigiana. Poi, in Romagna, dirige, a soli 19 anni, il settimanale repubblicano Il Pensiero romagnolo. A Civitella, sull’Appennino verso la Toscana, trova un lavoro al catasto. In realtà si occupa assai di più del periodico La Scopa, fondato dal socialista Torquato Nanni. Scrive a sostegno delle lotte per il 1° Maggio, finché non arriva, anche qui, il licenziamento e il ritorno a Faenza dove è ormai “vigilato” a vista. Preferisce il repubblicanesimo: gli suggerisce un’idea forte di libertà rispetto al socialismo riformista, un po’ piatto ed “economicista”. A Forlì, destina non poco impegno al foglio di partito Il Pensiero romagnolo, ma collabora anche a Lotta di classe diretta dal socialista Mussolini che con quel periodico si è ormai fatto una fama nazionale, dirigendo spregiudicatamente la federazione locale.

A vent’anni, nel 1911, Nenni assume la segreteria della Camera del Lavoro repubblicana e con Benito Mussolini, all’epoca fortemente influenzato da Georges Sorel (studiato e amato da un altro grande giornalista, Mario Missiroli, poi amico di Nenni, bolognese, originario di Russi), organizza a Forlì il famoso, riuscito sciopero generale contro l’intervento in Libia, che costa ad entrambi processo e carcere duro (in primo grado vengono condannati ad un anno di galera, poi ridotto in appello). Quando scrive o parla, le sua frasi sono come fucilate: “Alle urne bisogna sostituire le barricate”. Presto passa nelle Marche, dove è giunta la sua fama di vulcanico organizzatore politico e di polemista senza paura (processi e giorni di prigione fioccano). Là viene chiamato per le prime vere esperienze giornalistiche e direttoriali (sempre impastate con una frenetica attività politica). A Jesi, infatti, dirige il giornale repubblicano La Voce ed è corrispondente del bolognese Giornale del Mattino. E’ molto vicino all’Unione Sindacale Italiana (USI), il sindacato dell’anarchico Armando Borghi di Castelbolognese, allievo di Errico Malatesta, in competizione con la riformista CGdL. Scrive parole di fuoco: “Noi dobbiamo odiare chi ci opprime, chi ci calpesta, chi ci percuote”. E il fuoco si accende in Ancona – dove l’hanno chiamato a dirigere il vecchio foglio repubblicano e anticlericale Il Lucifero – dopo che il congresso socialista ha sancito la vittoria del tribuno Mussolini ancora amico di Nenni e dopo che nel partito repubblicano sono diventati maggioranza gli “intransigenti” alla Oliviero Zuccarini. Scoppia, da Ancona a Ravenna, la “settimana rossa”, un grande lampo rivoluzionario e pacifista, l’ultimo prima della guerra. Mussolini resta prudentemente a Milano dove dirige da due anni, con grande successo (500.000 copie di vendita) l’Avanti!, mentre Nenni si butta con la solita foga dentro quel moto tanto fiammeggiante quanto utopico.

E’ l’ultimo Nenni “rivoluzionario” in senso stretto. Anche come giornalista. Dopo il processo per i fatti di Ancona, tutto cambia. Gli accordi fra le sinistre vanno in pezzi con l’uccisione a Sarajevo dell’Arciduca Rodolfo e con lo scoppio del primo conflitto mondiale. Lui diventa interventista, come il leader repubblicano romagnolo Giuseppe Gaudenzi, come intellettuali del calibro di Gaetano Salvemini e di Piero Calamandrei. Costituiscono la componente “democratica” dell’interventismo che vede nel conflitto il completamento del Risorgimento con l’acquisizione di Trento e Trieste. Mussolini abbandona i socialisti e l’Avanti!, diventa interventista, ma per altre ragioni. In primo luogo ha capito benissimo che da socialista non raggiungerà mai il potere. In secondo luogo intuisce, alla maniera di Lenin, che la guerra cambierà radicalmente l’Europa e quindi l’Italia, e che, dunque, bisogna cavalcarla. Fonda, anche con finanziamenti francesi (che peraltro vanno pure ad altri giornali, nonché, personalmente, a Edoardo Scarfoglio e a Matilde Serao) Il Popolo d’Italia, una nuova tribuna alla quale collabora anche il giornalista Nenni. Che presto se ne procura un’altra: è il radicaleggiante Giornale del Mattino, proprietà del forlivese ingegner Giuseppe Pontremoli. Lo stesso che dirige il progressista Secolo di Milano e che vende ai cugini Perrone (titolari dell’Ansaldo di Genova) Il Messaggero di Roma. Pontremoli, mentre Nenni è a Bologna in licenza per una ferita riportata al fronte, gli propone addirittura la direzione del Giornale del Mattino. E’ riluttante, ma Pontremoli lo rassicura: “E’ più facile dirigere un giornale che puntare un cannone”. In quel periodo rafforza l’amicizia con Mario Missiroli (di poco più anziano di lui, è dell’86) il quale dirige fino al 1921 Il Resto del Carlino e dal 1921 al 1923 Il Secolo di Milano, lanciando un giovanissimo saggista spento a soli 25 anni dalle percosse squadriste, Piero Gobetti. Missiroli – che nel secondo dopoguerra sarà il prototipo del direttore prudente e moderato (pur favorevole al passaggio di Nenni e del PSI nell’area governativa) – è, in questo periodo, accesamente anti-mussoliniano. Ha un duello alla spada col futuro duce, a Milano, dalle parti di San Siro, il 23 maggio 1922. Mussolini se lo ritrova fra gli accusatori per il delitto Matteotti, lo farà licenziare dalla Stampa, lo escluderà dall’Albo ufficiale dei giornalisti negandogli la indispensabile tessera del PNF. In pratica, lo ridurrà al silenzio per l’intero ventennio.

Nenni ha abbracciato per anni la causa del combattentismo interventista. L’ha fatto con articoli al solito infuocati. Ma nel 1918 comincia a dubitare seriamente, a “dondolare”, secondo l’espressione derisoria di cui lo gratifica Benito Mussolini. Col quale allora ingaggia polemiche giornalistiche durissime. Fra l’altro difende a spada tratta Leonida Bissolati, aggredito e sopraffatto verbalmente, a Milano, dai seguaci di Mussolini e di Marinetti, e pure i socialisti di Molinella, guidati da Giuseppe Massarenti,  riformista, pioniere della cooperazione, assediati dagli agrari e dalla stampa borghese. Dal Giornale del Mattino Pietro Nenni risponde colpo su colpo a Mussolini, dopo aver fondato a Bologna un Fascio (naturalmente democratico) di Combattimento. Egli si rende conto che il patriottismo sta sempre più pericolosamente degenerando in nazionalismo (e ben presto sfocerà nel fascismo). Ma Il Giornale del Mattino chiude i battenti e lui, che, a meno di trent’anni, ha già moglie e tre figlie, precipita nella più nera difficoltà.

Sono i mesi del severo riesame critico, dell’avvicinamento al gradualismo socialista sin lì sempre avversato. E’ passato a scrivere sul Secolo diretto da Mario Missiroli. Ben presto ne sarà l’inviato, anche estero, stabilendosi con la famiglia a Milano. Si sprovincializza: “Questo sguardo sull’Europa fu per me una rivelazione”, scriverà più tardi. L’8 ottobre del 1920 Pietro Nenni si dimette dal Partito Repubblicano con una lucida lettera nella quale scrive fra l’altro: “Modesto studioso ho creduto mio dovere dirvi che il vostro insuccesso politico ha le sue cause nell’assenza di un principio e di un metodo nei conflitti di lavoro”. Ha capito che Mazzini non basta più, che il metodo migliore è “quello della lotta di classe”, che la battaglia “che vale la pena di essere combattuta è quella contro i privilegi del capitale”.

Tre mesi dopo, al congresso di Livorno, la corrente comunista lascia il Partito Socialista, indebolendolo ulteriormente. Nasce il PCd’I. Il 23 marzo 1921 un’azione squadrista, violentissima, devasta a Milano la sede dell’ Avanti!. Il giornalista faentino è corso là appena prima, ha sentito dell’intenzione dei fascisti di colpire il quotidiano-simbolo, sfruttando la grande emozione per la strage al Cinema Diana attribuita agli anarchici. Difendere la gloriosa testata fondata da Andrea Costa e immergersi, da socialista, nella battaglia antifascista è tutt’uno. Il direttore è Giacinto Menotti Serrati. Politicamente da lui tanto lontano che, pochi anni dopo, confluirà con altri “terzini” (i sostenitori dell’adesione del PSI alla Terza Internazionale) nel PCd’I. Giornalisticamente però gli offre una bella chance mandandolo subito a Parigi come corrispondente, il modo più diretto per migliorare il francese e la conoscenza di quella straordinaria capitale. Non sa che in tal modo preparerà il ben più lungo soggiorno da esule, con tutta la famiglia.

Come corrispondente dell’ Avanti! incontra per l’ultima volta il compagno di tante battaglie di sinistra, in Romagna e altrove, Benito Mussolini, alla conferenza di pace di Cannes (gennaio 1922). Nenni lo racconterà per esteso, con la capacità di scrittura che lo connota. Una conversazione notturna, “animatissima”, sulla Croisette: “I due nottambuli parlavano del loro Paese. Il destino li metteva per l’ultima volta l’uno di fronte all’altro su un piede di eguaglianza. Una vecchia amicizia, un’origine comune, molte battaglie combattute insieme; tale era il passato che li univa. I loro ideali, le loro passioni, i loro sentimenti li opponevano violentemente” (in Vent’anni di fascismo, Edizioni Avanti!, 1965). Non si sarebbero parlati mai più.

Al  rientro da Parigi diventa caporedattore del quotidiano socialista, ma non può non entrare in aperto conflitto col direttore Giacinto Menotti Serrati sempre più deciso alla fusione col PCd’I. Prospettiva assurda, avversata da Nenni che ha costituito un comitato per l’Unità Socialista. Interviene, pesantemente, l’Internazionale Comunista: “Noi insistiamo”, si legge in un suo dispaccio del 18 gennaio, “sull’allontanamento di Nenni, e che la sua opera nociva venga smascherata come disorganizzatrice del movimento proletario”. Il 3 gennaio 1923 Nenni motiva la propria posizione in un lungo articolo sull’Avanti!: “Il Partito deve essere interrogato subito, sul solo punto che interessa: la fusione immediata (…) a mezzo di referendum”. Lasciarlo nel marasma delle ultime settimane, “vuol dire assassinarlo”. E conclude lapidario: “Una bandiera non si getta in un canto come cosa inutile. Si può anche ammainare, ma con onore, con dignità”. Il congresso socialista di Milano (15-17 aprile) vede le tesi autonomiste di Pietro Nenni, sempre più dirigente politico, trionfare su quelle fusioniste di Serrati. E’ già il nuovo direttore dell’Avanti!, dal 2 marzo 1923. Pr l’autonomia e l’unità socialista inizia una nuova, accesa battaglia in una vita di qui in avanti caratterizzata dall’alternarsi di rapporti collaborativi e polemici coi comunisti. Tutto si fa più arduo con l’inasprirsi della repressione mussoliniana. In Questura gli chiedono di sottoscrivere una vera e propria sottomissione. Ovviamente rifiuta e scrive, caustico, “all’Eccellenza Mussolini”. Ricordatogli che sono stati condannati insieme, da uomini di sinistra,  dal Tribunale di Forlì, chiude sferzante: “Permettetemi di meravigliarmi che un uomo che viene dal socialismo, che il figlio di un internazionalista che ha sentito raccontare dal padre attraverso quali indicibili ostacoli il socialismo è passato, caschi nell’illusione dei conservatori vissuti fuori dal popolo e lontani dal proletariato, che vi siano misure di polizia, restrizioni di libertà, mezzi inquisitori, capaci di arrestare il corso di un’Idea. Il socialismo passerà Eccellenza Mussolini!”

Nel 1924, col delitto Matteotti, il giornalista Nenni è, assieme al direttore del Popolo, Giuseppe Donati, faentino lui pure, una delle punte più acuminate dell’accusa contro il duce. Per un opuscolo su Matteotti gli vengono comminati 6 mesi di carcere. L’anno successivo ha un duello alla spada col giornalista Curzio Malaparte, che l’ha denigrato sul giornale di Italo Balbo (padrino assieme ad Aldo Borelli). Col quadrumviro ferrarese il direttore dell’Avanti! ha un violentissimo diverbio. Incontra serie difficoltà anche nel PSI sostenendo la necessità di una politica unitaria coi compagni del PSU (di cui era stato straordinario animatore Giacomo Matteotti) il cui scioglimento ad opera del governo Mussolini prelude alle leggi eccezionali. “Tutte le conquiste del passato sono annullate. Democrazia politica; sindacalismo libero; stampa libera; influenza politica del socialismo. Tutto finito. Tutto da riconquistare con animo più agguerrito, con una maggiore consapevolezza politica, con una aumentata capacità di azione. Sorge da ciò il problema dell’unità socialista”. Non viene ascoltato: i dirigenti del PSI si baloccano con lo slogan né con Londra (cioè con l’Internazionale socialista), né con Mosca (cioè l’Internazionale comunista).

La lunga lettera con la quale Pietro Nenni dà le dimissioni dalla direzione dell’Avanti! impressiona Carlo Rosselli. La definisce “il solo documento nuovo e valido nella letteratura antifascista”, e gli offre di fare con lui la rivista Quarto Stato, esperienza giornalistica e politica tanto intensa quanto breve. Siamo nel 1926. La soppressione delle libertà fondamentali impedisce l’effettuazione del Congresso socialista dove Nenni doveva essere relatore. Il 13 novembre espatria, in Svizzera e poi a Parigi, aiutato da Carlo Rosselli e da Ferruccio Parri a beffare la sorveglianza poliziesca. E’ cominciato il suo lungo esilio. Vivrà facendo il correttore di bozze e il collaboratore, avrà momenti di polemica durissima coi comunisti che lo calunniano sull’Humanité e momenti di incontro. A questo punto egli è soprattutto un dirigente politico (che sa essere giornalista di prima fila), e non più un giornalista politico. Sarà così nei cinquant’anni che avrà da vivere. Con una continua dedizione alla scrittura, con l’invenzione di slogan efficacissimi: “O la Costituente o il caos”. Sarà l’uomo della Repubblica e della Costituzione, con la lucida polemica sull’articolo 7, sui Patti Lateranensi votati anche dal PCI nella carta costituzionale. Crederà sempre nell’efficacia degli editoriali, nel giornalismo. Compirà l’errore capitale del Fronte popolare. Saprà tuttavia riaprire una prospettiva al PSI col dialogo coi cattolici e col centrosinistra. Dopo le nuove e travagliate esperienze di governo, ridiscenderà direttamente in campo, nel ’74, per il referendum abrogativo sul divorzio, con l’antica, accesa passione laica.

Lo ricordo a 85 anni, solo, sul palco del Midas nel luglio del ‘76. E’ tutto fermo dopo le dimissioni di Mosca e poi di De Martino. I colleghi mi mandano a chiedere a lui, presidente dei lavori, di farci ammettere alla ripresa del dibattito. Mi sorride (fra l’altro siamo conterranei, mi chiamo come sua moglie, l’amatissima Carmen). Mi prende le mani fra sue, calde e rugose. E risponde subito: “Sono giorni inquieti, molto inquieti, caro Emiliani. I colleghi capiranno. La prossima volta, la prossima volta”. Ci lasciamo con un’intesa sorridente. La volta successiva, i giornalisti vengono ammessi ai lavori del Comitato centrale del PSI, divenuti così pubblici. Per un lungo periodo.