Gli anni del berlusconismo segnarono un grande successo e sviluppo della satira, specialmente sulla Rai a cavallo dei due millenni (dopo le prime esperienze governative del centrosinistra). La reazione berlusconiana toccò l’acme nel cosiddetto “editto bulgaro”, un pubblico appello di Berlusconi ai vertici Rai circa l’inopportuna condotta di alcuni cavalli da corsa del palinsesto pubblico: Biagi, Santoro e Luttazzi. Senza entrare nel merito di ragioni e torti, c’è da rilevare un forte zelo antiberlusconiano televisivo in quella campagna elettorale.
Benigni, che fu protagonista (nella trasmissione di Biagi) del gran finale di quella crociata televisiva contro Berlusconi, parteciperà più avanti ad una trasmissione di Celentano, ospite anche Santoro, e in quella sede, parlando di libertà di satira e di parola, citerà l’affaire Socrate e la famosa frase non di Voltaire ma a lui attribuita da Evely Beatrice Hall (“non condivido ciò che dici ma darei la mia vita bla bla bla”).
La mia memoria d’adolescente corse rapida indietro di pochi anni, all’estate ’99: in cui, con buona pace dell’Azzurro di Celentano, avevo più di un prete con cui parlare in oratorio, visto che accompagnavo mia sorella ai gruppi estivi salesiani e, tra una gimkana e l’altra, leggevo il dizionario filosofico di Voltaire, con grande disappunto di don Biagio. Voce “ATEO, ATEISMO”. Il filosofo ricorda come l’ateismo sia stato da sempre il migliore e più calunnioso grimaldello per screditare e demonizzare una nuova filosofia. «Anassagora osa pretendere che a guidare il sole non è Apollo dall’alto di una quadriglia? Lo chiamano ateo, ed è costretto a fuggire. Aristotele viene accusato d’ateismo da un sacerdote, e non potendo far condannare il suo accusatore si ritira a Calcide. Ma la morte di Socrate è quanto la storia della Grecia ha di più odioso.»
Voltaire passa ad accusare, direttamente e duramente, Aristofane di essere stato il primo ad aver abituato il popolo ateniese a vedere Socrate come un ateo, un imbroglione e addirittura un ladro, prendendone in giro i modi di fare e persino la filosofia. Voltaire, che era filosofo della tolleranza con metodo e non di quella a tutti i costi, sentenzia addirittura che Aristofane non fosse né poeta né comico, talmente volgare e spregevole che non sarebbe stato ammesso giustamente neanche “a rappresentar farse alla fiera di Saint Laurent” (fiera che aveva almeno il merito di beneficiare il lebbrosario Saint-Lazare).
Cita addirittura un passo di Plutarco, che definisce anche generoso, in cui Aristofane viene trattato con una ferocia oggi ancora disorientante. Arriva a dichiarare che fu proprio Aristofane a preparare “di lontano il veleno con cui giudici infami fecero morire l’uomo più virtuoso della Grecia.” Ce n’è anche per il governo ateniese, detto infame perché “autorizzava licenze tanto infami”, e per il popolo greco intero, meritevole nientemeno che delle schiavitù romana e turca per aver applaudito Aristofane e maltrattato Socrate. Non mi pare, questo Voltaire autografo, pronto a morire per la libertà di parola di Aristofane, come lo sarebbe invece quello apocrifo della Hall citato da Benigni.
Il quale accostò inoltre l’editto bulgaro alla cicuta di Socrate, facendosi anche forte della falsa frase di un Voltaire che invece per la morte del Sommo Filosofo vedeva prima responsabile la satira: quella di Aristofane, commediografo che verrà citato in televisione da un’altra “vittima” di Berlusconi, Daniele Luttazzi, per giustificare la propria coprolalia: “Ingiuriare i mascalzoni con la satira è cosa nobile: a ben vedere, significa onorare gli onesti.” Un concetto davvero inquietante, padre della rabbia irrazionale che alimenta le spinte demagogiche e qualunquiste così come quelle ideologiche e moraliste.
Serve ora, per inquadrare meglio come non occasionale il già preciso riferimento di Luttazzi, la rievocazione di un’altra mia lettura d’oratorio: Dario Fo, che alla cerimonia per il Nobel centrò il suo discorso sull’editto federiciano Contra jogulatores obloquentes (Contro i giullari insultanti). Il succo del modesto discorso si coagulava sul rapporto tra satira e potere, col secondo sempre arrogante ma alla fine soccombente sotto la magica confusione delle risate: e la prima magari patente nel martirio del buffone, ma poi trionfante in una Pasqua di Rivincita Morale.
La satira è sempre insulto. Un insulto che può far ridere come sgomentare, ricorrendo ora al turpiloquio ora all’ironia. Non c’è motivo di indulgere nell’esame del turpiloquio: di ragioni per toccare i lidi dell’ironia, invece, ce n’è diverse. Ironia deriva da eiron, colui che interroga, ed era infatti il principale approccio maieutico di Socrate. Egli si fingeva ingenuo e andava interrogando cittadini d’ogni mestiere e posizione sulle loro attività, sulle loro competenze, sulla loro vita: prima assecondandoli e poi cercando di farli cadere in contraddizione. In tal maniera rivelava a loro stessi quanta inconsapevolezza nel loro quotidiano, quanta superficialità in quel che ritenevano, a torto, di padroneggiare. Non c’era bisogno che Socrate conoscesse il campo dell’interlocutore, l’intelligenza può smontare tutto.
Questa portentosa arma venne presto abusata dai filosofi e dai retori greci, tanto da portare Aristotele a condannarne l’essersi caratterizzata come finzione astuta e arrogante. Lo Stagirita riconosce al metodo socratico invece modestia, da contrapporre alla millanteria e all’incoscienza.
Quando vanitosi e incoscienti praticano l’ironia, questa diventa un canale di nichilismo. L’ironia fu centrale per un certo dibattito interno ai romantici. L’ironia romantica era assolutamente distaccata dal so-di-non-sapere: il romantico si poneva come spirito superiore, animato da volontà e fantasie insoddisfacibili dalle miserie mondane. Era l’artificio, retorico e intellettualistico, per mettere in evidenza l’insufficienza della Realtà (mondo e uomo comune) rispetto alle purissime aspirazioni del Vate. Volendola prendere al meglio, con Schlegel, l’ironia romantica starebbe nel non prendere sul serio quelle mondanità, rivolgendosi con serietà solo all’ideale.
L’opera d’arte romantica, in quanto parte comunque dell’inutilissimo mondo materiale, è conseguentemente in contraddizione con lo Spirito che l’ha originata, e dunque di per sé ironica. Amaramente, ça va sans dire.
Hegel, al pari di San Tommaso d’Aquino (che però s’impegnava a muoversi in accordo ad Aristotele, o a muovere questo in accordo con lui), fu uno dei campioni avversi all’ironia. La additava come sommo autoinganno, atteggiamento sintomatico della crisi ateniese del V secolo rappresentata dal nichilismo del soggettivismo e del relativismo nei sofisti: solco medesimo di Socrate, che però aveva saputo elevarsene assumendo un atteggiamento, diciamo grossolanamente, più autoironico che ironico, e deciso a usare questa disorientante crisi come rilancio per una nuova etica, ricerca che si sarebbe concretizzata però solo dopo di lui, con Platone e la sua Politeia.
Kierkegaard, nella sua tesi di laurea e poi in Timore e tremore, parte dalle considerazioni di Hegel negandone il felice esito nell’idealismo platonico. La testimonianza di Socrate era già di per sé sostanza di quella autocoscienza, per quanto disorientata, nonché la risoluzione della crisi etica. Vana è la ricerca del sapere completo. Sostanziale ed etica, invece, la ricerca in sé. L’ironia ci mette davanti all’indefinito e insondabile della vita, una condizione insoddisfacente di cui possiamo però prendere atto e, conseguentemente, valutare considerazioni, assumere posizioni e operare decisioni: come per esempio accettare l’ingiusta cicuta dei giudici per testimoniare la propria coerenza.
Quello fu il momento più ironico di Socrate, la sua piena sottoscrizione alla propria ricerca senza cui “avrebbe appannato il senso della sua vita; avrebbe fatto supporre che l’elasticità dell’ironia era in lui un gioco e non una forza cosmica”: perché “l’eroe tragico-intellettuale deve avere e mantenere l’ultima parola”. Qui l’ardua ironia di Socrate vinse le corrive ironie di Aristofane, la satira che voleva ridurlo a ipocrita fanfarone.
Ironico sarebbe allora il momento in cui si prende consapevolezza della vacuità della vita, o meglio ancora della vacuità della vita precedente a quello stesso attimo, successivamente al quale la vita può assumere senso. Ironia diventa allora distacco, l’atteggiamento che conduce alla piena coscienza della mancanza di punti fermi che è di per sé un punto fermo, un centro sul quale costruire una civiltà.
Ironia, parola inflazionata nell’uso corrente, è nel frattempo divenuta bandiera e totem dell’intelligenza. Secondo il senso comune non possono non andare insieme. Da Wilde a Flaiano l’intelligenza moderna non può esimersi dalla pratica profonda dell’ironia né pensare di farne a meno. Perché la seriosità appesantisce l’intelletto e nulla deve essere intoccabile. Allora ecco che tutti toccano tutto, appoggiandosi spesso e volentieri a dei kit linguistici che oggi, grazie ai social network, permettono a chiunque di sembrare arguto castigatore di costumi.
Ad esempio la frase di Peter Pan “Ogni volta che un bimbo dice: ‘io non credo alle fate’, c’è una fatina che da qualche parte cade a terra morta” si semplifica nello schema “ogni volta che x fa y, z muore”. E dunque per farsi vedere sofisticati musicofili basterà pubblicare lo status “ogni volta che un dj dice ‘stasera suono’ un musicista vero muore”.
Ci sono poi altri esempi di linguaggio formulare come certi incipit: per esempio “e poi boh” che preannuncia un rilievo su passi ironici del quotidiano, dell’attualità. Altra formula abusata “capisci che è amore vero” quando “ti prepara la parmigiana come la nonna/gioca al tuo videogame preferito/scorreggia al tuo fianco” e così via.
Paradossale Wilde: “Oggigiorno tutti hanno spirito. Dovunque si vada, non si può fare a meno di incontrare persone intelligenti. È divenuta una vera peste”. E la peste di questo spirito è oggi ancora più evidente nella forma concettualistica, e superbamente universalizzante, dei meme. Buona metafora questa che accosta il contagio della peste alla viralità dei meme, la morte per peste al piattume dei meme, il proliferare di bubboni della peste come i meme stessi.
Meme è una corruzione inglese dal greco mimema, imitazione, accostato per assonanza e concezione al termine scientifico gene: ma non se ne vuole qui trattare diffusamente, basti identificarlo come da dizionario Treccani: «Singolo elemento di una cultura o di un sistema di comportamento, replicabile e trasmissibile per imitazione da un individuo a un altro o da uno strumento di comunicazione ed espressione a un altro (giornale, libro, pellicola cinematografica, sito internet, ecc).
“I memi digitali sono contenuti virali in grado di monopolizzare l’attenzione degli utenti sul web. Un video, un disegno, una foto diventa meme (termine coniato nel 1976 dal biologo Richard Dawkins ne Il gene egoista per indicare un’entità di informazione replicabile) quando la sua ‘replicabilità’, che dipende dalla capacità di suscitare un’emozione, è massima».
In soldoni, si tratta di un neologismo per comprendere stereotipi in latissimo senso, slogan e frasi fatte o semplici modi di dire, immagini e persino mode viste come elementi in grado di innescare o essere coinvolti in meccanismi virali. Fatti o, persino, “pezzi” di cultura; più in generale ancora, tutto il non-biologico. Il problema di analizzare il meme è evidente: si tratta di una parola non ancora consolidatasi nelle scienze, lasciata ai profani o quantomeno agli entusiasti, ed è ancora senza confini: una parola di totalizzante indefinitezza, una assoluta non-definizione che vorrebbe sovrastare la parola “cosa”, quella già troppo vasta “informazione” e addirittura “fenomeno”.
Vista la sulfurea indefinitezza, non sembrerebbe un caso, demonologicamente parlando, che l’invenzione del non-termine appartenga allo zelota ateista Dawkins. Non è dunque il caso di approfondire la memetica, visto che sarebbe come provare a comporre un trattato zoologico del sarchiapone. Ci limiteremo, e comunque assai superficialmente (è questo un abisso pernicioso cui accostarsi cautamente) al meme volgarmente detto, ovvero agli ironic memes, meme identificabili con tutta quella massa vastissima di immagini e frasi che, divenute convenzionali, vengono continuamente manipolate e mutate – quasi sempre con finalità comiche, ironiche satiriche – e che a un certo punto diventano approfonditamente comprensibili solo conoscendone almeno in parte la confusionaria tassonomia. È equivoco quando vengono detti “auto-propagantisi”, perché a produrli e propagarli sono sempre delle persone.
Queste mutazioni-mutuazioni memetiche stanno al postmodernismo come l’apocalisse zombie di Romero sta alla società di massa. Nel loro insieme i meme rappresentano una vera e propria invasione di ironie assolutamente nichiliste. Sono nichiliste nel loro insieme, quindi possiamo trovarne anche di occasionalmente edificanti: ma lo sono anche nella loro struttura. Il loro successo si enumera in likes, condivisioni e visualizzazioni: ma si pesa in influenza, e cioè in quanti e quanto vasti filoni riescono a figliare o contaminare.
Oltre a queste misure del grado di successo, esiste anche la valutazione della “sovversività”, ovviamente una sovversività riferita solo alla struttura e al contenuto di altri meme. Esistono ormai numerose, anche se ancora magmatiche, ricerche accademiche in merito, e la parte più interessante sta proprio sul legame tra ironia e sovversività. Esiste anche una classificazione degli ironic memes secondo le classi di pre/meta/post ironia che segnala fortemente il legame con le scuole più nichiliste del poststrutturalismo e del postmodernismo.
Si è passati dalla lettura aperta alla sovrascrittura aperta, anzi proprio spianata. È sorta una sedicente, comunque ormai affermata sebbene fisiologicamente confusa, comunità on line di integralisti cultori e produttori di meme che, con grande e scorretta lucidità, si sono battezzati autists, autistici. Il mondo di ipercitazionismo, e autoreferenziale, delle mutazioni-mutuazioni memetiche rievoca senza dubbio alcuni profumi di nevrosi, tra ripetizioni e monotonie che assumono senso solo tra chi è profondamente coinvolto in questo universo definibile indipendentemente dal resto del mondo.
Una sorda e diarroica ineffabilità che si contrappone ai normies, i profani che osano utilizzare i meme con qualche finalità esterna (politica, personale, sociale, religiosa, sentimentale…) alla mera distribuzione e ridistribuzione degli elementi memetici. Meme per i meme come art pour l’art, un parnassianesimo però informalista e venato di pessimismo entusiasta, in cui anche l’estetica è crollata come valore e impera un meccanicistico zelo masticatorio, digestivo e defecatorio. Una grande tragedia umana questa degli ironic memes, che costituiscono il pensiero limite dell’ironia.
La dura verità per chiunque sostenga un qualche valore, persino quello della libertà di risata, (caratteristica tutta umana come il peccato, diceva bene il venerabile Jorge da Burgos), si fonda ovviamente sul risibile. Che si tratti della nobile ironia socratica, della violenta satira contro gli oppressori, della calorosa comicità delle barzellette da taverna, del gelido sarcasmo dello scettico o di chi più ne ha più ne metta…a monte oppure a valle il Nulla attende che qualcosa diventi risibile, e quindi a lei visibile, per farle un secondo sorriso, rosso: sotto al principale, inciso sulla gola.
Alberto Savinio, genio aereo, ironico e uso alle sprezzature, pur scrisse che «il comico nasce dalla “smontatura” delle cose serie e gravi”, […] e piace soprattutto alla plebe»: giochi di contrasto, disse, che inevitabilmente esaltano lo spettatore, specialmente il meno coltivato, il quale nella rappresentazione comica cercherebbe quasi un esorcismo della propria parte vergognosa e nascosta.
Ammette che, oltre a questa forma catartica di masochismo, per ridere delle commedie (intese come da Aristotele, che egli stesso cita: “La commedia è l’imitazione di uomini di qualità inferiore”) serve anche “una cospicua dose di sadismo”. Neanche lui amava Aristofane, né tutta la comicità antica. Scrisse di aver sentito tristezza «alla rappresentazione (non dico alla lettura) delle Nuvole, del Soldato millantatore, dei Menecmi, ecc.; e quelle battute, quelle situazioni che facevano sbellicare dalle risa i contemporanei di Aristofane o di Plauto, a me davano reazioni molto più vicine alla sofferenza che al riso». Continua dicendo che verso il comico antico noi moderni siamo abituati a concedere molte giustificazioni e contestualizzazioni, ma che “nel comico anche più innocente c’è sempre un che di nocente”.
Insieme alla trattata autoironia socratica e kierkegaardiana, vale la pena citare, per concludere, l’umorismo pirandelliano. Mentre per Pirandello il comico sarebbe l’avvertimento del contrario, e cioè la semplice constatazione di qualcosa di assurdo e risibile, l’umorismo costituirebbe un passo ulteriore, ovvero il sentimento del contrario: un processo conoscitivo dunque che fa andare oltre la mera apparenza buffa di un fenomeno, risalendo fino all’origine psicologica, esistenziale, e facendo scattare una simpatia con la “vittima”. La satira, essendo militante, vuole ottenere l’esatto contrario e usa ironia e sarcasmo a questo scopo. Invece del buffo punta al ridicolo, che non vuole pararci davanti un “contrario” ma un “inferiore”, e presuppone non un orientamento ma una gerarchia di valore: non vuole disorientare il pubblico facendolo pensare ma vuole indirizzarlo facendolo sentire superiore.
Tutt’altro che un buon servizio alla maggior gloria dell’intelligenza. L’umorismo non è nichilista, perché valorizza il contrario: carica l’altro di valore, carica il contrasto di simpatia e permette allora di portare avanti la nostra vita senza negare quella altrui.
Scrivi un commento