Il governo Renzi festeggia il primo compleanno, e tra le statistiche sulla sua attività balza l’elevato numero di voti di fiducia (30) richiesti al Parlamento in dodici mesi. Tale dato riattiva il dibattito, mai sopito, sull’uso della questione di fiducia come strumento ordinario di attuazione dell’indirizzo politico, ponendo in rilievo la discrasia rispetto alla natura “rimediale” che l’ordinamento costituzionale le assegna.
Come è noto, la questione di fiducia si afferma nel nostro sistema di governo in virtù di una consuetudine sorta nel silenzio della Costituzione già a partire dalla prima legislatura repubblicana. In realtà è nel periodo dello Statuto albertino che essa appare per la prima volta, seppur nell’ambito di un assetto costituzionale che non prevedeva alcun coinvolgimento del Parlamento nella formazione e nella caduta del “governo del Re”.
In cosa consiste, concretamente, la questione di fiducia? Essa, nei suoi albori, si palesa come mezzo mediante il quale il governo verifica la solidità (o l’esistenza) della fiducia da parte della maggioranza che lo sostiene, subordinando la propria permanenza in carica all’approvazione di un atto (legislativo e non) cui esso riconnette particolare importanza. Quando il governo pone la fiducia, il dibattito si sposta dal merito del provvedimento per la dimensione del rapporto tra il governo stesso e la propria maggioranza, con priorità nella votazione rispetto a qualunque emendamento presentato.
Si evince quindi la natura “eccezionale” della questione, cui ricorrere nel caso di situazioni politico-parlamentari fluide che richiedano un chiarimento per il prosieguo dell’esperienza di governo. L’analisi empirica, invece, dimostra quanto l’uso di tale mezzo abbia perso nel tempo le connotazioni originarie per assumere sempre più caratteristiche ordinarie, ossia di usbergo con cui il governo conduce la propria attività in aula fiaccando le pratiche ostruzionistiche. Accade così che, soprattutto dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, la questione di fiducia venga impiegata come artificio “tecnico” per facilitare il percorso parlamentare di disegni di legge, sfruttando le regole procedurali dettate da prassi e regolamenti di Camera e Senato.
Negli anni Ottanta la tendenza si stabilizza e si accresce, indotta anche da una situazione politica di accentuata instabilità ministeriale e da un’endemica rissosità delle coalizioni di governo. L’abuso della questione di fiducia resiste anche al passaggio dalla prima alla seconda fase della Repubblica, accompagnando i governi della stagione successiva all’avvento del sistema elettorale maggioritario (1993) e di un primordiale bipolarismo nel sistema dei partiti.
Pertanto non stupisce come ancora oggi si assista ad un utilizzo massiccio della questione di fiducia, con l’aggravante del suo abbinamento a maxiemendamenti che riscrivono in un sol colpo il contenuto di un’intera legge e ad un ricorso alla decretazione d’urgenza spesso al di fuori dei presupposti indicati dall’art. 77 della Costituzione. Basta esaminare il numero di voti di fiducia richiesti nell’ultimo decennio per notare la continuità di tale prassi, da cui non è immune alcun esecutivo. Per tale ragione, quindi, il dato assegnato al governo Renzi non fa altro che confermare la degenerazione in corso, purtroppo, da circa quaranta anni e a cui non si è voluto finora porre rimedio con misure in grado di contemperare le esigenze della decisione con quelle della discussione, impedendo quello svilimento del ruolo parlamentare ormai conclamato.
Ciò che appare singolare, tuttavia, è un aumento così esponenziale dei voti di fiducia nel corso di un solo anno di attività, poiché la circostanza non consente di esprimere ottimismo circa il recupero di una dinamica più equilibrata nei rapporti tra governo e Parlamento capace di riportare la questione di fiducia dalla patologia attuale alla fisiologia che ne ispirò la nascita circa 150 anni fa.