1989: cade un muro, quello di Berlino, finisce un mondo (il “secondo”). E in Italia crolla una “chiesa”, quella comunista. Tanto che qualcuno, di sinistra e legato al cattolicesimo, dice: l’altra chiesa, quella cattolica appunto, resta in piedi. E oggi, nonostante tanti e non lievi problemi, essa dimostra una notevole reattività.
La sinistra, per contro, continua a soffrire di quel crollo. Fu un grave errore ritenere che la fine del blocco sovietico comportasse anche l’esaurirsi dell’esperienza socialdemocratica. Lì si colloca la linea di frattura, più che in “tangentopoli”. Così oggi nel Pd sono soprattutto esponenti di matrice cattolica-democristiana a dare segnali di vitalità. Stiamo forse assistendo, lo scrivo con dispiacere, alla deriva drammatica della realtà postcomunista italiana. Uno scivolamento verso il basso probabilmente irrimediabile.
Senza ideali, senza slancio, senza passione, siamo al cospetto per certi versi di pezzi nudi di potere. Mentre la “base”, il “popolo postcomunista” è più che mai sofferente e disorientato. E allora la domanda da porsi è: cosa possiamo fare noi che teniamo alle sorti della sinistra, che crediamo nel socialismo delle libertà per scongiurare la rovina ed evitare che tutta la nave affondi?
A parer mio non è più il tempo degli espedienti tattici; è piuttosto l’ora di interrogarsi senza veli sulla prospettiva. E a tal fine occorre una paziente opera di tessitura, per provare a riaprire un discorso condiviso al di là delle solite nicchie, coinvolgendo anche segmenti dello stesso mondo postcomunista. Non si tratta di indossare un abito nuovo. Si tratta piuttosto di preparare uno spazio nel quale far vivere, attualizzandola, l’idea di coniugare i meriti e i bisogni.