Pompei fa ancora notizia. Questa volta non per i muretti che crollano, ma per le gradinate di tufo che vengono consolidate col cemento armato (e pagate, secondo l’accusa, quattro volte più del dovuto). Intanto il Tar del Lazio (?!) dà via libera al restauro (?!) del Colosseo, quello finanziato da Della Valle con 250 milioni e senza un progetto. Ed il Sole 24Ore, nel Domenicale del 3 febbraio, pubblica i pensierini dei leader politici sui beni culturali.
E’ in questo contesto che, secondo Ernesto Galli della Loggia e Roberto Esposito (Corriere della Sera del 25 gennaio), “all’Italia serve un ministero della Cultura”. Disgraziatamente, però, in Italia un ministero della Cultura c’è già. C’è almeno dal 1998, da quando cioè Veltroni trasformò in “Ministero per i beni e le attività culturali” quel ministero “per i beni culturali e ambientali” che nel 1974 Moro aveva istituito per decreto al fine precipuo di dotare di un portafoglio il ministro Giovanni Spadolini. Il quale, se fosse rimasto senza portafoglio, probabilmente avrebbe potuto fin da allora assolvere alle funzioni che giustamente ora Galli della Loggia ed Esposito mettono in evidenza.
Il fatto è che un ministero è un ministero: “Un termine giuridicamente specifico che corrisponde ad una precisa tipologia” (cioè ad “un insieme di apparati amministrativi a forma piramidale, disciplinato dal diritto amministrativo, retto da un titolare di estrazione politica, e concepito per svolgere il proprio compito in termini di gestione diretta e accentrata”), come nel 1996, alla vigilia della riforma veltroniana, ammoniva (inascoltato) Marco Cammelli . Ed infatti quella riforma si realizzò per giustapposizione degli apparati che in seno al vecchio ministero del Turismo si occupavano di spettacolo (e finanche di sport) a quelli del ministero fondato da Spadolini (a sua volta, del resto, formatosi giustapponendo apparati della Pubblica istruzione, della Presidenza del Consiglio, e perfino del ministero degli Interni).
Per Cammelli si trattava del l’esatto opposto di quanto auspicato da coloro per i quali “ministero della Cultura è metafora di una politica per la cultura, sicché si auspica il primo per avere la seconda”. E già ai tempi di Spadolini Sabino Cassese aveva segnalato l’incongruenza di aver fatto “precedere la determinazione degli strumenti alla identificazione degli obiettivi”, senza spiegare “perché uffici che non funzionavano dovrebbero funzionare riuniti in un unico ministero”; mentre secondo Massimo Severo Giannini avrebbe meglio potuto funzionare un’agenzia, “una struttura molto agile, come un grandissimo ufficio per l’organizzazione e il controllo della tutela, che per l’azione avrebbe potuto utilizzare strumenti di diritto privato, cioè applicare il Codice civile”.
Ovviamente non è solo questione di efficienza, anche se l’entità dei residui accumulati anno dopo anno dall’Amministrazione dei beni culturali meriterebbe deplorazioni almeno pari a quelle di prammatica sui tagli e sulla scarsità di risorse. E’ questione di concetto, e riguarda innanzitutto la compatibilità fra la nozione di cultura e quella di gestione amministrativa. E’ curioso, fra l’altro, che fra tanti esorcismi sul “rischio Minculpop” (a cominciare da quelli lanciati negli anni ’80 contro Claudio Martelli), nessuno abbia eccepito sull’impronta politico-culturale delle leggi che ancora oggi governano il settore; e che nessuno abbia colto il rischio di una “estetica di Stato” nella gestione burocratica di un patrimonio che per essere fecondo deve poter essere letto con la massima libertà, invece che custodito con la massima diffidenza verso i contemporanei, studiosi o semplici cittadini che siano.
Dovrebbe infatti essere evidente che solo così si tutela un bene immateriale quale è il patrimonio culturale: che invece deperisce proprio se viene inteso e gestito come un insieme di cose il cui senso è stato definito una volta per tutte, come alla fine pretende la legge Bottai. E dovrebbe essere altresì evidente che il patrimonio culturale diventerà davvero “bene comune” solo se potrà interferire efficacemente con la società nelle sue diverse espressioni (quelle relative alla creazione artistica ed alla comunicazione, ma anche quelle relative all’uso del territorio ed al mercato).
Cerchiamo quindi di non far precedere ancora una volta “la determinazione degli strumenti all’individuazione degli obiettivi”: e può darsi che alla fine concludiamo che non di un ministero ha bisogno la cultura italiana, ma di un ministro, rigorosamente senza portafoglio, capace di coordinare i molteplici interessi che ruotano attorno alla tutela e all’implementazione del nostro patrimonio culturale.
Condivido praticamente tutto, ma bisognerebbe tornare davvero alla dizione
spadoliniana di Ministero dei beni culturali e ambientali.
Ha centrato il problema, e direi che in forma aggiornata la parte propositiva si avvicina a quella a suo tempo suggerita dalla Commissione Franceschini, rimasta purtroppo inascoltata.
Credo Covatta abbia centrato il problema. Per parte mia aggiungo che che la soluzione del problema conservativo – quello che dovrebbe essere alla base del “Ministero senza portafoglio” auspicato nell’articolo, vada cercata nell’istituire un rapporto razionale e coerente tra patrimonio artistico e ambiente in cui questo è andato stratificandosi nei millenni. Il rapporto che fa la vera unicità nel mondo appunto del nostro patrimonio artistico. Una “impresa che quanto a immaginazione creativa non sarebbe da meno di quella dell’arte del passato, così finalmente conservata nell’unica maniera che importa: come matrice di una rinnovata esperienza del fare creativo, e non più solo come oggetto di studio e di contemplazione estetica. Oggetto che non può certo essere abolito o riformato dall’innovazione scientifica, ma al quale questa riuscirebbe forse ad aggiungere ciò che studio e contemplazione non sono in grado di assicurare: l’integrazione materiale del passato nel divenire dell’uomo e delle cure impostegli dal suo essere al mondo”. Come scriveva Giovanni Urbani, del tutto inascoltato, nel 1980: 33 anni fa.
Condivido la sostanza, perché anche io, sulla base dei 40 anni di esperienza fatti in Soprintendenza, non credo che la istituzione di un Ministero della Cultura, come non lo fu nè quello inizialmente istituito da Spadolini, nè quello ‘modificato’ da Veltroni, possa cambiare quello che a me pare un ‘andazzo’ nella pur complessa gestione del nostro patrimonio culturale in tutte le sue diverse articolazioni, sfaccettature, implicazioni e destinazioni… Così come non credo che, alla luce dell’attuale situazione anche sul versante delle risorse finanziarie disponibili o… messe a disposizione per la cultura (ma prima non è che andasse meglio), cambi qualcosa se il prossimo Ministro del settore sia Tizio, Caio o Sempronio (anche se, come insegna l’esperienza fatta con gli ultimi due, tre o quattro ministri, al peggio o al peggiore non c’è alcun limite…). Per mia esperienza, che so essere anche la sua, i veri problemi da risolvere possono essere riassunti da questi tre o quattro punti (dico tre non per superficialità, perché so bene che ben più di tre, ma solo per brevità in questa sede): definizione e chiarezza degli obiettivi che il governo di questo complesso settore ‘cultura’ deve porsi; 1) eliminazione e concentrazione degli apparati burocratici centrali e periferici, cui è affidato (?) il governo del settore (dalla eliminazione delle direzioni regionali – un vero ‘campionario’ d’inefficienze, deficienze, interessi e sciatteria – e delle tante direzioni centrali alla riunificazione di alcune soprintendenze territoriali, troppo ‘sfrantumate’, disarticolate, inutili, inefficienti in nome di uno pseudofederalismo di facciata e d’interessi…); 2) intervento controllato dell’intervento privato – altro che sponsorizzazioni ad libidum e altro che affidamento esterno dei servizi cosiddetti aggiuntivi così come successo fino a oggi – attraverso una carta delle necessità urgenti e una presenza non marginale o subalterna degli organi istituzionali territoriali; 3) defiscalizzazione per quanti intervengono con proprie risorse (comprese le donazioni) nel settore, così come avviene da tempo in altri Paesi europei; 4) rinnovare radicalmente il personale tecnico-scientifico e amministrativo attualmente in servizio, sia perché in gran parte ‘invecchiato’ e demotivato, sia perché acquisito al settore con bassissimi profili professionali adeguati alle necessità, mentre da anni, in assenza di concorsi, sono tenuti fuori e mandati allo sbando, giovani che, dopo stages formativi nelle nostre strutture, non hanno trovato in esse collocazioni di alcun tipo (neppure il tanto ‘maledetto’ precariato), così da lasciare ‘ammuffire’ quelli che già c’erano e privando le istituzioni delegate della linfa vitale che in un ormai lontano passato concorse a far meglio funzionare, per passione, impegno e competenze acquisite sul campo, musei, aree archeologiche, biblioteche, archivi e finanche tutte le soprintendenze per i diversi ‘rami’, che all’estero venivano allora molto apprezzate e molto invidiate (lo chieda ai colleghi francesi o spagnoli).
Certo, lo dicevo, molti altri sono i punti da trattare: valorizzazione della nostra cultura non come si è fatto con la istituzione di un’apposita Direzione Generale (ancor un’altra…, per di più partita male e oggi affidata peggio!) non con le squallide iniziative promosse d’intesa con gli Esteri Ma solo la Francia è in grado di svuotare i depositi dei suoi musei anche più prestigiosi e crearne di propri all’estero ricavandone adeguate risorse finanziarie, mentre i nostri depositi museali sono pieni di ‘chincaglierie’ archeologiche e di opere d’arte in fatiscenza…?); aumento delle risorse da investire in cultura (vale sempre il moto “non si fanno nozze con i fichi secchi”?); limitazione degli enormi poteri affidati insensatamente (grazie alla Sinistra!), con una modifica dell’articolo 5 della Costituzione, a Regioni, Provincie e Comuni; adeguamento degli stipendi del personale ispettivo, direttivo e dirigenziale almeno a quello degli universitari o dei magistrati (che richiesta impossibile, lo so, ma allora teniamoci gli architetti che abbiamo e non solo….): ecc. ecc.
Ho ‘buttato giù’ in fretta pareri personali che non sono di altissimo rilievo ideale e culturale; ma, come diciamo dalle nostre parti comuni, terra terra e di poca prospettiva anche politica. Ma sono stato per 40 anni un funzionario ‘operaio’, ripetendo uno slogan che fece la fortuna di un noto ‘cavaliere’ e, andato in pensione, sono diventato, comunque, un pensionato ‘operaio’.
Ho seguito il dibattito sull’eventuale istituzione di un Ministero per la Cultura. A mio avviso, è poco proponibile senza una riforma costituzionale che riportasse ‘al centro ’ attività decentrate a Regioni, Province e Comuni. Occorre anche chiedersi se tale riforma sia auspicabile dato che l’attuale MIBAC non pare in grado di svolgere i propri compiti istituzionali e neanche di spendere efficacemente gli stanziamenti attribuitigli. Un eventuale Ministero per la Cultura dovrebbe includere anche l’audiovisivo – ‘espansione’ non solo politicamente difficile (chiunque sia il Ministro dello Sviluppo Economico vi si opporrebbe poiché questo e l’energia sono gli unici due settori di sua competenza non ‘spolpati’ dalla riforma del Titolo V della Costituzione) ma tecnicamente dubbia vista la scarsa capacità del MIBAC di gestire le proprie attuali competenze.
Mi parrebbe più saggio: a) un Ministro senza portafoglio con l’autorevolezza di allestire una politica per la cultura e una drastica riduzione del MIBAC che manterrebbe al Centro unicamente le attività tecnicamente non decentrabili (cinema, spettacolo dal vivo) e decentrerebbe il resto il più possibile, sperando nella sanzione sociale se enti decentrati non svolgono i loro compiti con efficienza ed efficacia; b) mantenere l’audiovisivo al Ministro dello Sviluppo Economico anche a ragione delle professionalità tecnico-ingegneristiche richieste; c) ridurre drasticamente musei ‘nazionali’, fondazioni lirico-sinfoniche ‘nazionali’ e simili al fine di porre gli enti locali di fronte alla scelta se avere un museo od un teatro di prestigio o finanziare a pioggia fiere del carciofo e della patata rossa; d) portare gli sgravi tributari per le elargizioni alla cultura ai livelli europei (ho lavoro con il Prof. Forte e l’Avv. Varone ad una norma poi persasi nei meandri del Collegio Romano) ed incoraggiare se si vuole un sistema di matching grants per attività culturali meritorie finanziate o promosse da privati.