Nel suo discorso di fine anno Giorgio Napolitano ha richiamato l’attenzione del paese e delle forze politiche sull’emergere di una nuova “questione sociale”. L’appello del Presidente non ha ricevuto grande attenzione. Siamo stati tra i pochi, con una nota del direttore su questo sito, a riprenderlo e a farlo nostro. In un certo senso, la cosa non sorprende. Napolitano ha impiegato consapevolmente una formula – “questione sociale” appunto – che non appartiene al gergo corrente del nostro dibattito pubblico, fatto ormai in larga misura di espressioni e modi di dire (per ricordare solo l’ultimo: “salire in politica”) che hanno completamente sostituito i contenuti, dando origine a una sorta di “neolingua”. Per comprendere l’allusione di Napolitano bisogna conoscere un po’ di storia. Enquete sur la question sociale in Europe è infatti il titolo di un’indagine del giornalista Jules Huret che raccoglieva i pareri di difensori e critici del capitalismo in diversi Paesi europei. Dopo la pubblicazione di quel libro, che includeva le opinioni di imprenditori, attivisti politici e studiosi, l’espressione diventa di uso comune.

Ma c’è un autore che di recente ha ripreso l’espressione:

Speaking of the social question reminds us that we are not free of it. For Thomas Carlyle, for the liberal reformers of the end of the nineteenth century, for the English Fabians or the American Progressives, the social question was this: how do you manage the human consequences of capitalism? How do you talk not about the laws of economics but about the consequences of economics? Those who asked these questions could be thinking in one of two ways, although many thought in both: prudential and ethical.

The prudential consideration is that of saving capitalism form itself, or from the enemies that it generates. How do you stop capitalism from creating an angry, impoverished, resentful lower class that becomes a source of division or decline? The moral consideration concerned what was once called the condition of the working class. How could workers and their families be helped to live decently without damaging the industry that gave them their means of subsistence?

Si tratta di Tony Judt, il brano che ho riportato viene da Thinking the Twentieth Century, una lunga conversazione con Timothy Snyder, che è una sorta di testamento spirituale dello storico britannico recentemente scomparso. Quando ho ascoltato il messaggio di Napolitano, mi è parso di riconoscere l’eco di queste osservazioni di Judt. Fare i conti con la questione sociale agli inizi del novecento era un imperativo sia per certi conservatori sia per certi progressisti, e la strada da seguire era per entrambi quella del riformismo. Con un’impostazione non partigiana. Basti pensare alla confluenza tra Liberali e Socialisti nel Regno Unito. Una via che conserva una certa attualità anche oggi. Certo, la storia non si ripete mai identica. Oggi, per esempio, non possiamo più parlare con confidenza di “workers” come di una categoria sociale dai caratteri unitari. Ma credo che si possa difficilmente negare che la crisi sta  creando “an angry, impoverished, resentful lower class that becomes a source of division or decline”. Su questo liberali e socialisti dovrebbero avere qualcosa di dire.