Alla fine la sintesi più efficace l’ha offerta Maurizio Crozza: «Beppe, secondo te se su Facebook scrivo “Stasera ho un cetriolo in mano, cosa ne faccio?”, quanti mi daranno consigli per una zuppa di zucchine?». La vicenda della querelle fra il Movimento 5 Stelle e la Boldrini è stata sviscerata in ogni modo, e il giudizio complessivo lascia l’amaro in bocca. Hanno sbagliato i deputati pentastelluti ad occupare il Parlamento, dando al paese l’ennesimo spettacolo raccapricciante di una politica urlata a squarciagola. E sin qui siamo nell’anomala routine italiana: Montecitorio negli ultimi vent’anni troppe volte è stata invasa da cappi, manette e cartelloni, e il degrado politico e morale di una classe dirigente non giustifica ipso facto la trasformazione delle aule parlamentari in postriboli ben arredati. Cerchiamo soluzioni, almeno in teoria, non nuovi problemi. Analogamente ha sbagliato la Boldrini. Vittima di un attacco triviale, si è lasciata andare a qualche esternazione sui generis. Dipingere i lettori di un blog come “potenziali stupratori” non è soltanto fuori luogo, è sciocco; ed è una stupidaggine che può essere perdonata ad un esponente politico partigiano, fazioso, un capogruppo ad esempio, non ad un’autorità di garanzia. Miglior figura avrebbe fatto l’esponente di Sel se avesse seguito l’esempio del ministro Kyenge: sobrietà e pacatezza in barba a qualsiasi rigurgito discriminatorio, poiché, se le parole feriscono, la noncuranza umilia i trogloditi.
Diverso è il discorso che riguarda il comico ligure, cui i panni di guappo calzano perfetti. Riferendosi al post sul viaggio in auto col Presidente della Camera, puntualmente Flavia Perina ha notato: “Provocare un casino e poi invitare alla denuncia chi ti è venuto dietro a Roma si chiama infamità”. Di questo si tratta. Sventolare la bandiera del qualunquismo becero, del fondamentalismo talebano applicato alla Repubblica, alzare la tensione dando copertura a quanti definiscono – più o meno palesemente – Napolitano un boia, incitare a reagire al golpe in atto, salvo poi condannare chi – preso dalla foga – brucia un libro di un intellettuale, è il trionfo del cupo tatticismo. Grillo non aspira a riscattare il paese dallo stato di palese depressione: vuole ballare sulle macerie, partecipare alla festa a modo suo, con un tono giullaresco irriverente e canzonatorio. Legittimo, per carità, ma nei vecchi castelli e nei fortini medievali, i re/signori conferivano al buffone il potere dell’invettiva, non già quello amministrativo o esecutivo. L’ha intuito perfino Dario Fo che, lamentando la “provocazione stupida con effetto degradante”, ha dimostrato un’apprezzabile predisposizione all’autocritica, merce rara da quelle parti.
Infine la destra, impegnata a celebrare il ritorno del figliol prodigo. Pierferdinando Casini dimostra di aver metabolizzato la lettura di Bobbio sul Psi craxiano: se il partito è un partito di coalizione e stenta a proiettarsi nella dimensione maggioritaria, è pur vero che l’equilibrio sistemico ne consacra il ruolo di primordine, rendendo centrali le sue strategie per la formazione o lo scioglimento di eventuali esecutivi. I sondaggi premiano questa scelta. Se è vero che le rilevazioni statistiche contano poco con una campagna elettorale tutta da vivere, è pur vero che un’Italia nelle mani di Berlusconi, Cicchitto, Bossi, Alfano e Casini non corrisponde esattamente al palcoscenico sfavillante della decantata Terza Repubblica.