Con l’ascesa al pontificato di Papa Francesco ha ripreso slancio e vigore il dibattito sulla “teologia della liberazione”, una corrente teologale nata dal “matrimonio della Chiesa con i poveri”, come afferma Leonardo Boff, ex frate francescano, teologo e scrittore brasiliano. L’attività pubblica di Boff è sempre stata orientata alla difesa dei poveri, e il suo fermo impegno nella lotta contro l’oppressione dei popoli latino-americani lo ha portato a scontrarsi con le gerarchie vaticane, sino a condurlo nel 1992 ad abbandonare l’ordine dei francescani.
Per comprendere il significato della riproposizione oggi della teologia della liberazione è utile tener presente il processo attraverso il quale, dopo essere nata ai tempi del Concilio vaticano II (1962-1965), essa è venuta evolvendo, non senza contrasti, all’interno del mondo ecclesiastico.
Il suo corpo centrale esprime un impegno pastorale della Chiesa coincidente in toto con il significato e la pretesa dell’umanesimo socialista; questo, come l’umanesimo predicato da Cristo, afferma che l’affrancamento dei poveri e degli oppressi dal loro stato di minorità non può essere realizzato se si prescinde dalla comprensione e dalla rimozione delle condizioni che sottendono l’organizzazione del sistema sociale e dalla natura dei prevalenti rapporti materiali esistenti tra tutti i suoi componenti. Se non fosse così, che significato simbolico si dovrebbe assegnare al gesto con cui Cristo, salendo le scale del Tempio, getta a terra il denaro dei cambiavalute rovesciandone i banchi, se non quello di aver voluto con quel gesto reagire ai prevalenti rapporti materiali di un sistema sociale che, per via della sua natura, consentiva che gran parte della popolazione del suo tempo fosse conservata nell’indigenza, nella povertà e nella sofferenza?
Boff, in La Chiesa dei poveri, racconta che alla fine del 1965 quaranta vescovi di tutto il mondo, ispirandosi a Papa Giovanni XXIII, si sono riuniti nelle catacombe di Santa Domitilla, fuori Roma: questo è stato l’antefatto che ha determinato nel 1968, in occasione della Conferenza episcopale latino-amaricana tenutasi a Madellin, l’ “irruzione” nella coscienza ecclesiale della centralità dei poveri e degli oppressi e l’urgenza di un impegno pastorale da parte della Chiesa per la loro liberazione. Da questa presa di coscienza ecclesiale, afferma Boff, è nata la teologia della liberazione; per mezzo delle sue pratiche, “nei sindacati, nei partiti politici di indirizzo popolare, nelle comunità cristiane, nei movimenti di resistenza e fino allo scontro con le forze di controllo e di repressione del regime allora dominante in America Latina”, i movimenti popolari di protesta e di resistenza si sono imposti come nuovi protagonisti e come nuovi attori sociali.
Negli anni Settanta la teologia della liberazione ha orientato il proprio impegno verso il “povero e l’oppresso materiale, sociale e politico”; la loro liberazione doveva passare per le “liberazioni storico-sociali”, senza le quali non sarebbe stato possibile riscattarli dal loro stato di alienazione. Negli anni Ottanta l’impegno è stato orientato verso la comprensione della condizione del povero e dell’oppresso culturale, riflettendo non solo sulle condizioni materiali, sociali e politiche dei poveri e degli oppressi, ma anche sulla cultura che sottendeva il perpetuarsi della loro condizione di alienazione. Negli anni Novanta, infine, la teologia della liberazione ha allargato il paradigma della sua riflessione teologale e della sua azione pastorale, considerando i pericoli derivanti a tutta l’umanità dalla crisi ecologica, nella consapevolezza che la Terra non era più in grado di sopportare la dilapidazione delle sue risorse: non esistendo più un’arca di Noè utile per trarre in salvo alcuni, abbandonando gli altri al loro destino, era necessario un impegno dei cristiani e con loro di tutti gli uomini di buona volontà per una liberazione integrale della Terra.
Il peso della teologia delle liberazione, afferma Boff, si è fatto sentire durante il suo sviluppo, per cui la crescente espansione nella coscienza ecclesiale all’interno dell’apparato centrale della Chiesa non ha tardato a richiamare l’attenzione su due possibili pericoli: la riduzione della fede alla politica e l’uso acritico dell’analisi del marxismo nella cura delle condizioni esistenziali dell’uomo. Ne è prova il fatto che negli anni Ottanta l’allora cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, non ha condannato la teologia della liberazione, ma quelle sue deviazioni che avevano perso di vista il soprannaturale per divenire solo una sovrastruttura di un progetto marxista.
Per molti ecclesiastici conservatori – incluso il cardinale Gerhard Müller, attualmente al vertice dell’ex Sant’Uffizio – Ratzinger, con la sua condanna degli anni Ottanta, ha preparato la strada a una vera teologia della liberazione, legata alla dottrina sociale della Chiesa, che oggi con l’ascesa al pontificato di Papa Francesco è pronta a levare la propria voce.
Una delle prime dichiarazioni di Papa Francesco, infatti, è stata quella di volere “una Chiesa povera per i poveri”, memore del fatto che nella sua formazione spirituale da gesuita aveva avuto, e continua ad avere, una parte importante la “teologia del popolo argentina”. I conservatori, annidati all’interno dell’Opus Dei, avrebbero voluto che la teologia del popolo, pur schierata dalla parte dei poveri e degli oppressi, si caratterizzasse per il non uso dell’analisi marxista dei problemi sociali e per l’uso, in sua vece, di un’analisi che privilegiasse i problemi storico-culturali: come dire sì alla cura dello stato dei poveri e degli oppressi, ma senza alcuna attenzione all’origine sociale e politica della povertà e dell’oppressione.
Le preoccupazioni degli ecclesiastici conservatori sembrano destinate a non avere alcun peso sul futuro del movimento: tanto che Papa Francesco ha ricevuto in udienza privata Gustavo Gutiérrez, teologo domenicano peruviano, uno dei cofondatori della teologia della liberazione e autore di un recente libro dal titolo che non ammette fraintendimenti: Dalla parte dei poveri. Teologia delle liberazione, teologia della Chiesa. La vicinanza di Papa Francesco a Gutiérrez vale a dimostrare che anche la teologia del popolo argentina è lontana dall’idea che la dimensione sociale e politica dell’azione pastorale della Chiesa possa fare correre il rischio che si perda di vista il rapporto tra uomo e Dio. Anzi, per la Chiesa universale e per tutti i suoi credenti, questo rapporto potrà costituire realmente il fondamento del riscatto dalla povertà e dall’oppressione dell’uomo solo se tale riscatto sarà realizzato non attraverso un atto caritatevole, ma attraverso la rimozione delle cause sociali e politiche della povertà e dell’oppressione. Ma per rimuovere tali cause occorre conoscerle, e la loro conoscenza è strumentale al conseguimento delle finalità di tutte le forme di umanesimo socialista, tra cui quella dell’umanesimo marxiano, tradito dai suoi rudi interpreti, e quella dell’umanesimo cristiano. Accedendo a questa prospettiva diventa possibile, come afferma padre Gutiérrez, sfatare l’ironica battuta dell’arcivescovo brasiliano Hélder Câmara: se si dà un pane a una persona affamata, si dice che si è santi; mentre, se si chiede perché una persona ha fame, si dice che si è comunisti.
In chiusura, viene fatto di osservare che nel mondo del cristianesimo, come in quello secolarizzato dell’economia e per certi persi della società secolarizzata tutta, i tedeschi sembrano compiacersi d’essere i leader del conservatorismo, sotto le mentite spoglie dei “cani da guardia” della tradizione. Che sia solo un caso?
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