Nel 1989 a Firenze si doveva ripavimentare piazza della Signoria. Era stata disselciata per consentire scavi archeologici che avevano portato alla luce terme romane di modesto interesse. Nessuno aveva protestato per questa discutibile impresa. Ma la polemica divampò sulla ripavimentazione. E’ il caso di dire, volgarmente, che c’era chi la voleva cotta e chi la voleva cruda. Nel senso che, contro il progetto di rimettere al loro posto i bàsoli di granito che erano stati rimossi qualche anno prima, si era sviluppata una corrente di pensiero, guidata da Indro Montanelli, che preferiva la pavimentazione in cotto.
La soprintendenza ai beni architettonici di Firenze, col conforto del competente comitato tecnico-scientifico del ministero per i Beni culturali (cioè gli organismi statali deputati dalla legge alla tutela) ed il Comune (cioè il proprietario del bene tutelato) si trovarono d’accordo sul granito. Ma un pretore che preferiva il cotto nominò un perito di sua scelta che gli fornì la base “scientifica” per contestare al sindaco, ai soprintendenti, ai dirigenti centrali del ministero ed agli esperti del Comitato il reato di devastazione del patrimonio storico-artistico.
Curiosamente il primo a plaudire all’invasione di campo da parte della magistratura fu allora Vittorio Sgarbi, non ancora garantista ma già fazioso. Questo, però, è un altro discorso. Il discorso che interessa oggi, dopo le ordinanze del Gip di Taranto, riguarda invece l’equilibrio fra le competenze dei diversi organi dello Stato, ed anche l’oggettività delle perizie “tecnico-scientifiche”. La legge attribuisce al ministero dell’Ambiente il potere di concedere o negare l’autorizzazione all’esercizio di impianti industriali in ragione del loro impatto ambientale. Ma basta un perito nominato da un Pm per rendere inefficace la legge. Summum jus, summa iniuria, dice il brocardo. Ma in questo caso non si vede neanche dove sia il jus, mentre è ben evidente l’iniuria portata a decine di migliaia di lavoratori, ad alcuni imprenditori e manager, ed infine all’economia nazionale.
Di questo conflitto fra poteri dello Stato sarebbe il caso di discutere, invece di sprecare parole sul conflitto fra diritto al lavoro e diritto alla salute, che dura da quando l’uomo ha cominciato a manipolare la natura per produrre ricchezza e procurarsi di che campare.
Covatta ripropone, ancora una volta, un problema ormai annoso, ma sicuramente destinato ad aggravarsi ulteriormente nel futuro. Non è solo lo squilibrio tra i poteri dello stato – emerso almeno a partire dall’operazione ‘politica’ affidata alla magistratura agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso – che è in gioco. Ma, ormai qualcosa di più: non già dunque un difetto nel modello settecentesco di divisione dei poteri su cui si basa il disegno liberale dello stato moderno, ma il suo complessivo deperimento.
Perché, a partire dalla saldatura tra opinione pubblica e funzione salvifica di un organo burocratico come la magistratura, nel ’93, si è progressivamente eroso il principio stesso della rappresentanza. La forma plebiscitaria di democrazia esaltata dalla parabola Brlusconi non ha fatto che eludere un problema ormai reso evidente da Grillo, l’astensionismo e l’insieme dei commenti politici. E’ in corso una revoca del principio della delega su cui si fonda tutta la costruzione politica moderna, ben prima della sua riformulazione in senso democratico. Di qui l’inevitabile crescita del ruolo arbitrale della magistratura come unico organo istituzionalmente delegato, se non a governare la politica,a risolvere i conflitti che dall’assenza (ma anche dalla presenza: v. la questione TAV, le discariche etc.) di politica derivano.
Due le conseguenze immediate: anzitutto la prevalenza di ‘poteri negativi’ rispetto a poteri preposti ad agire e ‘fare’, in secondo luogo l’inarrestaqbile tentazione dei detentori di un potere negativo e di controllo a trasformarsi in governanti: Covatta fa l’esempio perfetto di Piazza della Signoria a Firenze, ma la Corte dei Conti, proprio negli anni di presidenza di un bravissimo compagno come Carbone s’è deliberatamente assunta funzioni di scelta e indirizzo e non solo di controllo. E questo avviene ormai quotidianamente nella prassi dei TAR.
Facile l’analisi, difficilmente la proposta di soluzioni: qui mi basta confermare l’esigenza di una seria e vasta riflessione prima che, definjitivamente, come fu evocato molti anni or sono, si passi al mero e semplice governo dei giudici.