L’articolo di Ernesto Galli della Loggia “L’inerzia dei governi liberali carta vincente del fascismo” (Corriere della Sera, 9 ottobre), che recensisce il Terzo Volume sulla Storia del Fascismo di Roberto Vivarelli, mi ha lasciato senza fiato.
Galli della Loggia lo definisce “un’opera monumentale, paragonabile solo a quella di Renzo De Felice su Mussolini”; un testo, cioè, che cambia per sempre la valutazione storica sulla nascita del fascismo. La tesi, in sintesi, è questa: il vero colpevole del Ventennio fu il partito socialista, che alimentando in ogni modo il sentimento antinazionale, il classismo e la violenza, provocò la reazione patriottistica dei fascisti. I liberali furono un po’ timidi, e questo è l’unico appunto che si può muovere loro.
Io non sono uno storico ma solo un giornalista, ma proprio per questo nella Storia non apprezzo i manifesti ma, se mai, i chiaroscuri. Qui invece ci sono solo asserzioni inconfutabili: questa tesi sarebbe “la vittoria definitiva del cosiddetto revisionismo”, come se non fosse stata fino ad oggi ampiamente approfondita la vicenda del massimalismo italiano degli anni ’20: un miscuglio di estremismo e dogmatismo che avvelenò le radici riformiste del Psi mettendo nell’angolo i turatiani e indebolendo con divisioni e fratture la forza popolare maggioritaria nel Parlamento del primo dopoguerra. Fu sì un’operazione ispirata dai leninisti, ma curiosamente Galli della Loggia non cita mai il vero protagonista delle spaccature, cioè il nascente comunismo. Il Psi fu vittima di questa feroce lotta interna. Viene invece dipinto nel suo insieme come un manipolo di pazzoidi (per l’esattezza, in preda ad un “attacco di demenza politica”) che provocò “una vera guerra civile fra due opposte passioni politiche: la passione della classe e quella della nazione. Tra la bandiera rossa e il tricolore”. Il tricolore sarebbe quello degli squadristi, che in fondo non fecero che opporsi a Lenin…
Galli della Loggia arriva a mettere nel mazzo persino Giacomo Matteotti, che compì certo degli errori ma non smarrì mai la bussola del riformismo. Uno storico cattolico equilibrato come Giampaolo Romanato, nel suo “Matteotti – Un italiano diverso” (Longanesi, 2011) – non tace sugli abbagli di Matteotti nel “biennio rosso”, ma poi gli tributa ogni onore ricordando vari fatti: mentre i massimalisti volevano “fare come in Russia” lui organizzava le leghe contadine nel Polesine e svolgeva con onestà e perizia il ruolo di amministratore locale; in Parlamento fu costantemente dalla parte delle istituzioni (facile, al contrario, citare una sbavatura verbale di Treves come fanno Vivarelli-Della Loggia…); sin dall’inizio, lui e i suoi compagni furono i nemici ritenuti da Mussolini i più pericolosi. Non a caso nel 1924 fu Matteotti ad essere assassinato, non qualche fedele della Rivoluzione d’Ottobre.
Correrò a leggere il volume di Vivarelli. Spero che non risulti ciò che appare dalla recensione, una fotografia in cui i fascisti sono patrioti, i liberali inerti, i comunisti inesistenti, e la colpa del fascismo è tutta di Matteotti e di Treves.