Il libro di Joseph Stiglitz “Bancarotta. L’economia globale in caduta libera” prende in esame la crisi economica attuale in modo per molti versi contraddittorio. In esso infatti il premio Nobel americano compie un’analisi critica che non ammette appello circa le modalità di funzionamento delle economie di mercato, sino a prefigurare la necessità di un “nuovo ordine capitalistico”, spiegato e descritto da una scienza economica riformata e finalizzato alla realizzazione di una nuova organizzazione della società.
L’attività riformista ed innovatrice che Stiglitz propone non va però al di là di puri e semplici suggerimenti che risultano, in ultima istanza, solo modalità per “acquistare tempo” (nel senso di Wolgang Streeck): in altri termini, più che a rifondare il capitalismo essi appaiono solo utili al superamento della fase critica attuale delle economie di mercato, rinviandone la riforma ad un tempo futuro.
La crisi in atto, partita dagli Usa, è presto diventata globale, e la moderna politica economica, con la sua fiducia nel libero mercato e nella generalizzata internazionalizzazione dell’economia, ha fallito nell’assicurare la prosperità attesa, manifestando così la sua inidoneità a gestire con efficienza ed efficacia i rischi connessi alla ciclicità dell’evoluzione dell’attività economica.
La recessione iniziata nel 2007/2008 ha infranto l’illusione delle gratificanti attese, costringendo tutti a riflettere sulla validità delle idee universalmente accettate riguardo al modo di funzionare delle economie di mercato. Per un quarto di secolo, secondo Stiglitz, queste idee sono state sostenute e propagandate sino a radicare nell’immaginario collettivo l’insostituibilità delle “dottrine del libero mercato”, secondo cui lo Stato deve limitarsi a svolgere un ruolo minimo nell’economia in quanto un’eccessiva regolazione impedirebbe l’innovazione, considerata il motore della crescita, dello sviluppo e del benessere della collettività.
D’altro canto le Banche centrali devono svolgere le loro funzioni indipendentemente dal potere politico e preoccuparsi di tenere “sotto controllo” l’inflazione. Queste idee, sottostanti le politiche pubbliche attuate a partire dalla fine degli anni Settanta, si sono rivelate sbagliate, in quanto la loro condivisione ha aggravato gli esiti della crisi e mostrato l’inconsistenza degli insegnamenti da esse derivabili. Tra le altre cose, la crisi del 2007/2008 ha lasciato in eredità al dibattito teorico e politico seguito al suo aggravarsi il problema di stabilire quale futuro possa essere riservato all’umanità dall’”eterno conflitto circa il tipo di sistema economico che abbia maggiori possibilità di funzionare” in condizioni di stabilità. Dopo che l’alternativa tra capitalismo e comunismo è venuta meno, questo conflitto ha assunto un nuovo significato, in considerazione del fatto che l’”economia di mercato si presenta in numerose varianti, e il confronto fra esse è più acceso che mai”.
Sulla base delle idee sbagliate prevalse nel periodo pre-crisi, osserva Stiglitz, si è pensato che i mercati deregolati potessero da soli assicurare la prosperità e la crescita, che fossero in grado di auto-correggersi e che si potesse fare affidamento sul comportamento egoistico di chi in essi agisce nell’interesse di tutti. In realtà i liberi mercati, in particolare quelli finanziari, sono stati più volte sorretti e liberati dalle anomalie accumulatesi grazie all’intervento dello Stato, per cui la loro sopravvivenza è stata resa possibile dal reiterato ausilio della “stampella pubblica”; ciò nonostante, si è conservato il convincimento sbagliato che essi fossero in grado di garantire la loro sopravvivenza per meriti propri.
Quando l’economia mondiale è entrata nel tunnel della crisi, tutti i convincimenti salvifici sulle virtù del libero mercato si sono però dissolti; la crisi, infatti, ha fatto emergere alcune anomalie strutturali del capitalismo: soprattutto di quella particolare forma di esso che si è affermata nella seconda metà del secolo scorso in gran parte delle cosiddette economie di mercato.
Secondo Stiglitz, se si riuscirà a capire le cause che hanno scatenato la crisi del 2007/2008 e le ragioni per cui alcune delle prime risposte ai suoi esiti negativi sono state fallimentari, forse sarà possibile che in futuro l’instabilità economica sia meno probabile e la sua ciclicità di più breve durata, in modo da consentire ai singoli sistemi sociali di “gettare le basi per una crescita davvero vigorosa basata su fondamenta solide, abbandonando la crescita effimera degli ultimi anni basata sui debiti”; magari si potrà anche fare in modo che i frutti della crescita siano distribuiti presso la grande maggioranza dei cittadini.
Per poter realizzare questo disegno riformista dovrà essere stabilito quale debba essere il nuovo ruolo dello Stato; la sfida da affrontare consisterà nel creare un “nuovo capitalismo”, e a tal fine si dovrà “sfruttare” questo momento di incertezza per stabilire che tipo di società si vuole realizzare. In ogni caso dovrà trattarsi di una società che non permetta più ai liberi mercati di condizionare l’economia e le persone che di essa si avvalgono per realizzare i loro “progetti di vita”.
L’obiettivo fondamentale del funzionamento del sistema economico dovrà essere individuato ancora nell’incremento del benessere della popolazione, quale che sia la definizione che di esso si vorrà darne. In ogni caso si dovrà tener conto che l’indice con cui tradizionalmente esso è sempre stato misurato, il Pil, è divenuto obsoleto; il nuovo indice dovrà focalizzare l’attenzione sull’individuo, sulla sostenibilità ambientale, sulla salute, sull’istruzione, sulle disuguaglianze distributive e sulla stabilità.
In particolare la necessità di risolvere prioritariamente il problema delle disuguaglianze sociali discende dal fatto che l’attuale crisi economica è stata notevolmente aggravata dal deficit della domanda globale aggregata; una visione di lungo termine su come riformare il capitalismo attuale dovrà, perciò, garantire una “domanda sufficiente per assorbire la capacità di produzione mondiale. Un aumento dei consumi da parte dei poveri […] e una riduzione da parte dei ricchi […] ridurrebbero l’entità degli squilibri” esistenti non solo a livello dei singoli sistemi economici, ma anche a livello mondiale.
Per raggiungere questo obiettivo, conclude Stiglitz, lo Stato, assumendo un ruolo di primo piano, dovrà stabilire le regole di funzionamento del nuovo capitalismo, fornire le infrastrutture necessarie, finanziare la ricerca, garantire l’istruzione, la salute e tutte le forme di tutela sociale che la nuova società vorrà garantire ai propri cittadini.
A ben considerare, in che cosa consisterebbe il nuovo capitalismo preconizzato da Stglitz se non in un ritorno, forse con qualche emendamento, alle tradizionali politiche d’intervento di natura keynesiana? Non c’è da stupirsi, considerato che Stiglitz stesso afferma di riconoscersi nella tradizione del “grande economista inglese John Maynard Keynes”, la cui influenza sul come governare l’economia moderna è stata prevalente durante gran parte della seconda metà del XX secolo.
Ma per realizzare il “nuovo capitalismo” del quale parla Stiglitz non sono sufficienti le forme di intervento del tipo di quelle da lui indicate. Per riformare l’attuale capitalismo occorre soprattutto favorire una più equa distribuzione del prodotto sociale a sostegno della domanda globale aggregata: nel senso che non servono politiche di intervento realizzate ex-post, ma servono invece nuove regole che per un verso stabiliscano ex-ante un’equità distributiva sufficiente ad evitare le disuguaglianze responsabili dell’instabilità del sistema economico, e per un altro verso garantiscano il sostegno di attività produttive alternative a quelle fondate sull’impiego di forza lavoro dipendente.
Le nuove regole dovranno risultare strettamente correlate ad una riforma ab imis delle tradizionali forme d’intervento di natura keynesiana: riforma, questa, che non potrà che essere fondata sull’introduzione del reddito di cittadinanza, la cui adozione però non potrà essere accolta facilmente, in quanto incompatibile con l’ideologia sottostante il fondamentalismo del libero mercato. E quest’ideologia, anziché essere morta, come suppone Stiglitz, continua al contrario a tenere sotto scacco la possibilità di riformare il modo di funzionare dell’attuale capitalismo globalizzato.