Proporrei di trasformare il congresso della Cgil da occasione di polemica a motivo di riflessione. La democrazia, come direbbe Tocqueville, non può ridursi a farci sentire liberi ogni cinque anni. E tradizionalmente, fra i pesi e i contrappesi che la caratterizzano, accanto ai “poteri” in senso stretto, vi sono la stampa, i partiti, gli altri “corpi intermedi”. D’altro canto i possenti mutamenti tecnologici, economici e sociali degli ultimi decenni impongono di ripensare in profondità lo Stato sociale e gli equilibri raggiunti in Europa nel “trentennio d’oro socialdemocratico” del secondo dopoguerra. Detto in maniera più sbrigativa, siamo al cospetto di un vero rompicapo: la democrazia ha bisogno di corpi intermedi, però essi sono oggi per lo più inadeguati e tendono a ostacolare proprio quella revisione radicale e necessaria degli assetti sociopolitici. Le cause di ciò sono note da tempo: il prevalere di istanze corporative, clientelari e conservatrici e la malattia dell’autoreferenzialità, come ricordava giorni fa Luigi Covatta.
La democrazia, poi, si nutre di conflitti e tende a regolarli. Ma davvero oggi i problemi e le tensioni presenti nel tessuto sociale passano per il sindacato? O piuttosto esso fa del proprio ruolo e del proprio potere un fine e non un mezzo?
Dinanzi a fenomeni del genere, si possono assumere due atteggiamenti diversi: limitarsi a constatare la situazione (magari coniando vocaboli come “postdemocrazia”), oppure provare a elaborare e proporre soluzioni volte a coniugare capacità di decisione e di scelta, coinvolgimento dei soggetti vivi della società, confronto a più voci. Da eredi di una tradizione e di una storia, quella del movimento operaio e del riformismo, dovremmo contribuire, credo, alla seconda opzione.