A 82 anni se n’è andato Silvano Miniati. Io lo conobbi all’inizio degli anni ’70, quando – con Lucio Libertini, Silvano Andriani ed altri compagni il cui spirito critico non sfociava mai nell’estremismo – militava nella sinistra del Psiup. Ricordo che alla vigilia delle elezioni del 1972 vennero a trovare Livio Labor, col quale ci apprestavamo ad affrontare la difficile prova elettorale. Auspicavano un’intesa fra le tante liste di sinistra che non si riconoscevano né nel Pci né nel Psi, anche per dare onorata sepoltura all’esperienza del Psiup, dei cui limiti erano consapevoli più di noi. La proposta era irrealistica, ma l’analisi da cui nasceva era lucida. Pronosticarono infatti la comune catastrofe, che puntualmente si verificò nelle urne.

Silvano tuttavia non si diede per vinto. In occasione della diaspora psiuppina rifiutò sia di confluire nel Pci, come fece la maggioranza, sia di tornare nel Psi, come fecero Peppino Avolio, Vincenzo Balzamo e tanti altri. Partecipò alla fondazione del Pdup, e poi di Democrazia proletaria. Ma dopo il fallimento di quelle esperienze trovò logico rientrare nella casa socialista, senza lasciarla neanche dopo il terremoto dei primi anni ’90. Era tornato all’impegno sindacale nella Uil, ma non aveva mai smesso di perseguire l’obiettivo di animare una sinistra non conformista. Con Franco Lotito aveva dato vita al “Network della sinistra riformista”, ed ora era vicepresidente della Fondazione Buozzi. Se n’è andato proprio adesso, quando i sassi che per mezzo secolo aveva gettato nello stagno della sinistra italiana cominciano a provocare qualche ondata di rinnovamento.