Si può parlare di “orgoglio”, e perfino di “amore autentico”, dei cittadini per la città in cui vivono senza neanche accennare alla pulizia e alla manutenzione quotidiana delle strade, delle piazze e del verde pubblico, all’organizzazione e alla raccolta regolare dei rifiuti, all’opera diuturna dei vigili urbani a garantire decoro e vivibilità dei rioni e dei quartieri, nonché il flusso regolare del traffico pubblico e privato? Le pagine romane del Corriere della Sera, con l’editoriale di domenica 29 marzo, ci dicono che si può: queste realtà non vengono neanche evocate.
Il tema dell’articolo è il confronto fra il sentimento dei parigini e quello dei romani verso la propria città, occasionato dalla visita del sindaco di Roma nella capitale francese. Un confronto in cui non mancano citazioni di poeti e romanzieri, ma che resta generico quanto a esperienze cui esso possa riferirsi in concreto. Sicché – per dire – mentre a Parigi gli utenti degli autobus scambiano tutti i giorni e su ogni mezzo il saluto con i conducenti, che pure ne controllano l’ingresso obbligatorio dalla porta anteriore e il possesso di un regolare “titolo di viaggio”, a Roma l’azienda comunale dei trasporti rinnova i suoi mezzi chiudendo, nell’entusiasmo dei sindacati di categoria, i conducenti in gabbiotti che ne escludono qualsiasi contatto con l’utenza, lasciata in preda all’anarchia e alla morosità: e non si trova uno straccio di giornale o emittente locale o di pagina locale di quotidiano nazionale, che faccia notare che questa scelta condizionerà i prossimi trenta-quarant’anni (la vita media di un autobus urbano) di “pubblico servizio”, di buona amministrazione e di convivenza “civile”.
In questo vuoto di concretezza e sullo sfondo di un silenzio annoso, certo non idoneo a scuotere i cittadini dalla rassegnazione e dall’impotenza, si trova il modo di lanciare l’ennesimo j’accuse nei confronti dei romani (a cominciare, evidentemente, dai lettori), colpevoli di non amare Roma, di averla “travolta con la violenza e l’arroganza, imbarbarita con la maleducazione e l’intolleranza, soffocata con l’inefficienza e con la corruzione, umiliata con un’indifferenza che mette spavento”. Così invasati, i romani, dal rifiuto e dal disprezzo per la loro stessa città da aver chiamato a guidarla un “marziano” (espressione corrente su tutti i media) come Ignazio Marino, genovese, chirurgo di riconosciute capacità e successo all’estero, impostosi prima nelle primarie Pd e poi portato a furor di voto in Campidoglio non certo sulle spalle del maggior partito della coalizione, che lo ha candidato, ma da solo e in bicicletta. Con l’aggravante, sempre per i romani, di vedere poi per settimane cronisti anche video-dotati braccare nei vicoli del centro storico la Panda rossa (della moglie) del sindaco, a sollazzo dei commentatori e fra le pernacchie della fronda interna alla maggioranza e dell’opposizione in Consiglio comunale e in città. Finché l’inchiesta denominata “Mafia-Capitale” non è venuta a ricordare a tutti perché il popolo sovrano si era andato a scegliere come sindaco Marino.
Nella presente catastrofe dei partiti è difficile evitare di cercare nei media – nella cronaca, nei commenti e, in generale, nel servizio da essi reso alle città e al paese – non solo note di colore o intemerate che si vogliono originali, ma anche elementi di conoscenza e criteri di valutazione della realtà che contribuiscano a costruire valide vie di uscita e a individuare i soggetti sociali e i possibili alleati in un percorso di riscatto collettivo, sociale e culturale, di comportamenti e di mentalità condivise, oltre che politico. E di continuare ad esserne delusi trovandovi ancora i cascami delle più varie intenzioni letterarie ancora  vive nel nostro giornalismo: timidezze e reticenze nei confronti dei poteri costituiti, se non anche malavitosi, nei pubblici servizi e nella società civile e, in questo deserto intellettuale e pratico, invocazioni di mezzi militari (i “lanciafiamme”) in mano a leader di partito, e magari a “poteri forti”, il cui avvento salvifico sarebbe solo la sanzione del fallimento di una intera classe dirigente,  non solo nell’Urbe.