La riduzione dell’orario di lavoro fu fra le prime rivendicazioni del movimento operaio: che si trattasse di denunciare “la differenza di lavorare e di comandar” o di esigere insieme “il pane e le rose”, in tutto il mondo le otto ore furono la prima conquista del sindacato dei lavoratori. Si capisce quindi la reazione dei sindacati della scuola all’ipotesi di un aumento dell’orario. Non si capisce, invece, come mai un orario di 18 ore alla settimana venisse giudicato congruo ed uno di 22 venga giudicato incongruo.
Per carità: tutti sappiamo che le ore di lavoro di un insegnante non sono solo quelle di cattedra, e che ad esse vanno aggiunte le ore dedicate alla preparazione delle lezioni, alla correzione dei compiti, all’aggiornamento ed alla programmazione didattica. Ma siamo sicuri che il tempo dedicato a queste attività non sia quantificabile, e quindi non sia a sua volta retribuibile? In fondo quello dell’insegnante non è l’unico lavoro intellettuale contrattualizzato: anche i medici ospedalieri, per dire, oltre che in corsia ed in sala operatoria lavorano quando si aggiornano o programmano le attività dell’azienda ospedaliera.
Perchè, allora, non è possibile contrattualizzare ciascuna delle attività dei docenti che si svolga oltre l’orario di cattedra? Per un motivo molto semplice: per non intaccare gli automatismi che caratterizzano il contratto collettivo degli insegnanti. Soprattutto per evitare che venga retribuito, se non il merito, almeno il carico orario di ciascun docente. Luigi Berlinguer ci rimise le penne, quando tentò di indire il famigerato “concorsone”. Ma già nella seconda metà degli anni ’80 analoghi tentativi di valorizzare il lavoro individuale dei docenti venne respinto con perdite. Allora per guidare la protesta fu necessario creare le Gilde e i Cobas. Adesso se ne occupano Cgil, Cisl e Uil, che ad un altro tavolo discutono con Confindustria di produttività del lavoro.
Un ricordo del liceo: un mio compagno di classe e io notammo con un po’ d’ironia che un professore (per il quale provavamo entrambi simpatia e stima) tendeva a cadere in contraddizione. Talvolta poneva l’esigenza di superare certi stereotipi “sentimental-deamicisiani”, per così dire, legati alla figura dell’insegnante, visto ad esempio come “mamma” o come “straccione acculturato”. Talaltra provava a mostrare come fosse arduo quantificare davvero quel tipo di lavoro, così legato a fattori soggettivi e imponderabili.
E – ecco un altro aneddoto – proprio nella seconda metà degli anni ’80, in occasione di un’assemblea d’istituto, dinanzi alla prospettiva dei tagli dei fondi per l’istruzione, accostai la sorte della scuola pubblica alla vicenda dei “camalli” di Genova. Esageravo. Però forse a mio modo coglievo l’irrisolta ambiguità “tagliare”/”razionalizzare”. Il dubbio, infatti, resta: se è vero che senza la spinta della necessità o addirittura dell’emergenza prevalgono spesso le pulsioni conservatrici, l’obiettivo di fondo è una scuola all’altezza dei tempi o, semplicemente, sborsare meno soldi?