Lunedì, mentre ascoltavo Scalfari alla presentazione del libro di Franchi su Napolitano, mi sono reso conto di essermi perso qualcosa fra gli anni ’70 e gli anni ’80. Allora, sotto la guida di Riccardo Lombardi, io mi battevo per l’alternativa di sinistra. E non mi ero accorto che Scalfari (ed anche Paolo Mieli, che aveva ribadito lo stesso concetto quindici giorni prima, presentando il nostro libro sul crollo del Psi) sostenevano le mie stesse tesi, e pretendevano che Craxi rompesse con la Dc e passasse all’opposizione col Pci. Nella mia distrazione ricordavo invece sia l’endorsement delle grandi testate al compromesso storico che i bruschi richiami al senso di responsabilità impartiti a Craxi quando faceva il difficile nel concedere la fiducia ai più svariati governi a guida democristiana. Per questo non ho battuto ciglio quando poi Scalfari ha brillantemente concluso rilevando che “dopo Tangentopoli i socialisti, con l’unica eccezione di Giorgio Ruffolo, traslocarono nelle file di Forza Italia”: temevo di essermi perso qualcosa anche nel corso degli ultimi vent’anni, e nel caso qualcosa di più tangibile di un’opinione o di un editoriale.
Poi mi sono guardato intorno, ed ho visto tanti altri compagni che non avevano traslocato, a cominciare da Rino Formica. Ed ho visto anche Emanuele Macaluso, Gianni Cervetti, Franca Chiaromonte e gli altri che, insieme con Giorgio Napolitano, avevano tentato “l’avvicinamento a un partito che era diventato una banda”. Infine, uscendo da Montecitorio, ho visto entrare una torma di deputati a cinque stelle che probabilmente morivano dalla voglia di dare la fiducia a Giuseppe Pella, il cui governo era stato appena evocato da Scalfari come modello di governo del Presidente.